La morte ritorna dal fiume – L’ultima indagine di Lorenzo Maida [Il Superstite 419]

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ATO6: "Crisi idrica, i cittadini siano più parsimoniosi con l'acqua" CorriereAl 1di Danilo Arona

 

Scriveva con arguzia nel 1995 l’antropologo Riccardo Motta a proposito del fiume Tanaro e del suo rapporto con l’immaginario locale:

«Un fiume amico e pacifico, ma anche potente e pericoloso, quasi un giustiziere implacabile. L’espressione très an Tani, ‘gettarsi nel Tanaro’, evoca infatti le immagini più macabre. Tanaro è anche il fiume dei suicidi. La frequenza delle morti volontarie, fortunatamente bassa, è comunque stata una realtà. Non è difficile comprendere perché gli aspiranti suicidi abbiano scelto come teatro di quei loro atti estremi i ponti o le rive del Tanaro, invece che della Bormida. Fiume di vita e di morte, Tanaro è anche il fiume principale e il più prossimo alla città, che dopo la sua espansione la bagna all’interno. Invece Bormida è un fiume esterno, rimasto al di fuori dalla cerchia urbana vera e propria: in qualche modo emarginato anche in passato, anche se qualche linea fortificata di bastioni è esistita proprio nella sua direzione, verso Marengo. Il suicidio, che può essere considerato un atto di estrema solitudine, richiede però molto frequentemente una sorta di palcoscenico e un pubblico. La disperazione dell’attore deve essere comunicata al prossimo: e due dei ponti sul Tanaro, quello della Cittadella e quello del quartiere Orti, sembrano prestarsi al tipo di rappresentazione tragica e dei disadattati. Con Tanaro è meglio non scherzare. Lo sanno bene gli alessandrini, anche se le ultime generazioni possono averlo dimenticato. Il fiume inghiottiva nuotatori incauti, pescatori frettolosi o negligenti, non soltanto i suicidi. Ma i corpi dei suicidi non li ha mai restituiti.”[1]

Questo per affermare che in Alessandria godiamo di un grandioso mito leggendario a proposito del nostro fiume: quello della giovane vita femminile spezzata per l’altrui violenza che nelle acque oscure del Tanaro ha trovato, forse, ultima dimora. Può chiamarsi Marinella, proprio quella di De Andrè secondo le ricerche minuziose dello psicologo Roberto Arzenta[2], Melissa[3] o essere l’innominata che si buttò nell’acqua il 17 maggio 1939, forse per una protesta estrema contro la visita di Mussolini. E può essere Valentina Lanzavecchia, il motore – umano – che accende l’ultimo, entusiasmante romanzo di Angelo Marenzana. Il delitto del fascista Nuvola Nera, edito da Fanucci.

Il tenerissimo e doloroso prologo della morte di Valentina merita di essere qui riproposto:

«… Aveva deciso di concedere la propria giovinezza al corso del fiume consumando un rito arcaico di purificazione per meritarsi un angolo di paradiso. Il Tanaro le sfiorò la gola. Poi superò il mento, la bocca. Quando i capelli si aprirono a ventaglio, Valentina si lasciò cadere verso il basso. Meglio farla finita con un gesto unico, deciso. Eterno. I piedi vennero risucchiati dalla melma del fondo. Lei rimase con gli occhi aperti, mentre la testa si liberava della musica dell’orchestra e delle voci dei due sconosciuti per lasciare spazio alla luce da cui sgorga il bene.»

È il passato che oscura il presente storico dell’Alessandria dell’aprile 1945. La Città Grigia ancora più grigia, sporca e polverosa, vessata dai bombardamenti e dalle lacerazioni sociali, dove l’elegante Lorenzo Maida – il venditore di tessuti che indaga meglio di Sherlock Holmes e che abbiamo già conosciuto nel precedente Alle spalle del cielo -, a pochi giorni dalla fine dichiarata della guerra, incappa in due misteriosi delitti, di cui il primo intitola l’ultimo lavoro di Angelo. Ovvio, Maida dovrà metterci il naso, sollecitato dal cognato poliziotto Vito Todisco, in un’indagine torbida che immobilizza l’attenzione del lettore su un’Alessandria inedita e quanto mai inquieta nel suo quasi iniziatico processo di trasformazione. Se Curcio, l’aiutante di Maida nel negozio, dichiara lapidario a pagina 39 che “senza un passato gli uomini non avrebbero nulla da dirsi”, va da sé che è un passato rimosso e luttuoso che bisogna andare a scoperchiare per scoprire dinamiche e colpevoli dei due omicidi. E certo, il sottoscritto recensore non è qui per guastarvi sorprese e colpi di scena che sono alla (massima) altezza di un noir bellico dove si indaga lungo un tortuoso percorso da decodificare per la gioia degli amanti del genere, ma dove si fotografa soprattutto una città, la nostra, colta in angoli gustosi e inediti che hanno il sapore, anche drammatico, dell’estrema provvisorietà. Da lì a poco nulla sarà più così e comincerà, alla fine delle ostilità, una spaventosa resa dei conti che ammorberà la vita civile e collettiva ancora per anni.

L’ho già scritto, Angelo è uno spirito antico e, come me, ha ascoltato dalle bocche di consapevoli genitori, le cronache dei “tempi di guerra”, quando le sirene annunciavano le incursioni di Pipetto e dei bombardieri. Ma, aggiungo un sospetto, in lui alberga sul serio l’anima trasmigrata di un alessandrino di quell’epoca, tanto è vivida e autentica la descrizione della città di allora (sottoposta per vostra notizia al vaglio di mia madre che ha 95 anni ed è più lucida di me…). E, come sempre, ci sarebbero – ci sono troppi ingredienti su cui far scivolare l’attenzione del lettore: in primo luogo, l’anelito all’effetto perturbante e “fantastico” che qua e là emerge nell’asciutta e realistica prosa, che si suggerisce qualora non lo sapessimo che Angelo è anche un pregevolissimo autore gotico (da buon piemontese, se posso…). E poi, una riconferma, la straordinaria molteplicità dei ritratti femminili, abilità nella quale il Marenzana scrittore eccelle senza cadere nel bozzettismo e regalandoci rappresentazioni di autentiche e indimenticabili personalità, sempre inespresse per l’odiosa oppressione delle controparti maschili. Del resto, il Marenzana uomo, quello che s’incontra tutti i giorni, è un sottile tombeur de femmes…

Una parola in conclusione sull’editore che ospita l’ultima fatica di Angelo Marenzana: Sergio Fanucci che per me, eterno adolescente (ma quando cresco?…), significa Lovecraft, Machen, Matheson, Dick, i  “miei” padri fondatori. È bello vedere i due cognomi abbinati in copertina.

Il romanzo sarà presentato oggi pomeriggio alle 18 alla Feltrinelli di Alessandria. Giorgio Bona e il sottoscritto affiancheranno l’amico, come spesso fanno, sottoponendolo a un affettuoso fuoco di fila.

 

[1]  (Riccardo Motta, Tanaro, Bormida e l’inconscio collettivo di Alessandria, Maxmi, Alessandria, 1995)

[2]   www.lastampa.it/2012/12/31/asti/ecco-come-ho-scovato-la-vera-storia-dellamarinella-di-fabrizio-de-andre-/pagina.html

[3]   Danilo Arona, Cronache di Bassavilla, Dario Flaccovio, Palermo, 2006.