La caduta della piccola Mo e Margherita la bigotta [Lettera 32]

di Beppe Giuliano

 

 

Il capitolo di ‘500 anni di tennis’ a lei dedicato si intitola, parafrasando Hemingway: Breve la vita felice di Maureen Connolly.

“Mo vinse sedicenne il Campionato USA e, nelle quattro successive stagioni della sua breve carriera, fu battuta solo quattro volte. A Wimbledon non perse mai.”

Solo Monica Seles farà qualcosa di simile, e solo la Seles avrà un trauma a fermarla altrettanto grave e inatteso di quello che fermò la Connolly.

Forse quello che è più sbagliato, nel titolo citato, è l’uso dell’aggettivo “felice”.

Ho sempre creduto che la grandezza sul campo da tennis fosse il mio destino, un destino oscuro, a volte, quando il campo diventava la mia giungla segreta e io una cacciatrice solitaria e impaurita, scrisse nell’autobiografia. Ero una strana ragazzina armata di odio, paura, e una Racchetta d’Oro (le maiuscole sono sue).

Quando le chiesero quale fosse stata la sua esperienza più divertente nel gioco, rispose: non ne ho mai avuta una. E ancora: nessuna fama, nessuna immortalità possono valere il prezzo che ho pagato.

Crebbe con una mamma sola (il padre marinaio si era dileguato quando Mo non aveva ancora quattro anni) con ambizioni frustrate di artista che ribaltò sulla figlia. Non andò bene con la danza, né con il canto, né con la scuola perché Maureen era interessata solo ad andare a cavallo, finché non entrò in uno dei tre campi in cemento vicini a casa.

Superstiziosissima, non si privava mai del suo talismano, un anellino su cui due dragoni custodivano una palla. Iniziò a girare per tornei e, quando non era in campo, passava ore e ore nelle chiese, a ragionare sul fatto che perdere sarebbe stata un’offesa a Dio.

Aveva solo tredici anni e già i giornalisti scrivevano del “killer con le trecce”. A sedici divenne “Little Mo” come era chiamata una corazzata irta di cannoni.

Vinse, vinse sempre, fece nel 1953 il primo Grande Slam femminile, intanto litigò con tutti, perfino con la sua “pigmalione” Teach Tennant che la allenava da quando aveva dodici anni, odiò ogni avversaria, ogni giornalista, ogni persona che le si avvicinava. Nonostante scrivesse con la sinistra fu corretta dal maestro a impugnare di destro (Wilbur Folson ricordava che non c’era mai stata una grande campionessa mancina), aveva un grande rovescio e un diritto che non usciva mai dalle righe. Soprattutto, aveva una determinazione spaventosa.

Come disse Mervyn Rose, buon giocatore e grande allenatore di campionesse, che lavorerà sia con Billie Jean King sia con Margaret Court: “non ho mai visto un’espressione simile sul viso di un tennista” (forse solo la giovanissima Chris Evert sarà altrettanto fredda e dura).

Maureen Connolly continuò ad amare i cavalli e proprio montando a pelo nel 1954, dopo l’ennesimo Wimbledon vinto, fu disarcionata quando un camion passando spaventò Colonel Merryboy. La sua gamba destra restò incastrata tra camion e cavallo e la frattura scomposta del perone segnò la fine della sua carriera. Non aveva ancora compiuto i 20 anni. E non ne aveva ancora 35 quando il cancro la uccise.

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Invece la definizione che l’immaginifico Gianni Clerici coniò per Margaret Court fu “mirabile monstrum”. L’australiana era più della media delle avversarie in tutto: alta 1,75 quando la media era 1,68, 71 chili di peso contro i 66, con la mano più lunga, dal palmo più largo, con più forza nella destra. E da ferma saltava diversi centimetri più delle altre.

Sul campo per una dozzina di anni nessuna le si avvicinò. Vinse 24 Slam, tuttora un record anche se alla Williams ne manca solo uno per raggiungerla, fece l’en plein nel 1970, degli undici Australian Open sette li conquistò consecutivamente fermandosi solo perché non li giocò nel ‘67. Aggiunse 19 titoli dello Slam nel doppio e 21 nel misto (dove fece il Grande Slam nel 1963 con Ken Fletcher e nel ‘65 con tre diversi partner) per un incredibile totale di 64 cui si avvicinerà, arrivando a 59, solo Martina mentre le altre e gli altri sono a distanza siderale.

Ancora nel 1973 tra una gravidanza e l’altra fallì il secondo Slam solo per la sconfitta a Wimbledon in semifinale proprio con la bambina Chris Evert cha aveva appena battuto nella finale del Roland Garros e che batterà di nuovo a Forest Hills.

Quell’anno cadde nel trappolone di Bobby Riggs. “A 55 anni suonati, – scrive Gianni Clerici – Riggs lavorò come un castoro per costruirsi la parte del “maschio sciovinista”, attrasse su un campo la povera Margaret Court, che, tutta casa e chiesa, di femminismo non ne aveva mai voluto sapere. La dileggiò, la batté, e, subito, lanciò la sfida a Billie Jean (King), che non aspettava di meglio.”

Come andò l’abbiamo raccontato in: Billie Jean King ha battuto anche Borg e McEnroe 

Dopo la carriera Margaret Court è diventata, lei cresciuta cattolica, ministro della chiesa pentecostale, è al centro di polemiche per le sue forti prese di posizione contro l’omosessualità definita “un abominio agli occhi del Signore”, il che le ha provocato scontri per esempio proprio con Billie Jean King e con Martina Navratilova. Più volte è stato chiesto che il campo a lei dedicato, dove si gioca l’Open d’Australia, venisse rinominato. L’ultima a chiederlo è stata, proprio in occasione della recente edizione, la potentissima direttrice di Vogue Anna Wintour. Per ora il campo continua a chiamarsi come il “mirabile monstrum”.

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