Il mondo in mano a una “hafu” [Lettera 32]

di Beppe Giuliano

 

Mentre Nole Djokovic vinceva facilmente il torneo maschile degli Open di Australia, con maggiori difficoltà (soprattutto nella finale contro la Kvitovà) vinceva il titolo femminile Naomi Osaka, il volto nuovo del tennis.

La Osaka l’abbiamo vista alla massima ribalta solo pochi mesi fa, quando ha vinto in modo sorprendente gli Open degli Stati Uniti, anche se della finale tutti abbiamo ricordato soprattutto lo sfogo della favorita Serena Williams, che dopo il secondo “warning” incassato e dopo aver dato del ladro al giudice arbitro, ha subito un inusuale game di penalità, scendendo a 3-5 nel secondo e ultimo set di un match terminato 6-2 6-4.

Dopo un incontro più equilibrato che bello Naomi ha vinto in Australia, e ha anche guadagnato a 21 anni il numero uno delle classifiche mondiali, il che peraltro racconta pure un vuoto notevole del tennis femminile, da molti anni del tutto dominato dall’esplosiva “Serenona” (l’appellativo si deve ovviamente a Clerici).

Serena Williams cui peraltro la Osaka si rifà, per diverse caratteristiche a iniziare dal padre coach, pur venendo da storie personali diverse.

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La finale australiana ha raccontato due storie entrambe interessanti: la sconfitta Petra Kvitovà, due Wimbledon nel suo palmarès, tornava a giocarsi un grande titolo poco più di due anni dopo l’aggressione col coltello subita in casa che le aveva lasciato una lesione ai tendini della mano sinistra (lei è mancina) e che aveva ricordato a molti quanto successe a Monica Seles.

La Seles, di origini ungheresi ma nata a Novi Sad allora jugoslava, a meno di vent’anni sembrava destinata a diventare una delle tenniste più vincenti di sempre: era a otto Slam, il primo a poco più di sedici anni, nel ‘92 non aveva completato il Grande Slam solo per la sconfitta in finale a Wimbledon con Steffi Graf, e la tedesca probabilmente si sentiva come un pugile vicino al kappao disperatamente impegnata a resistere ai colpi che la ferocissima Monica continuava a infliggerle.

Poi ad aprile ‘93 uno squilibrato tifoso fino all’ossessione di Steffi accoltellò la Seles durante un cambio di campo. La ferita fu grave ma il danno psicologico subito lo fu anche di più e da allora Monica Seles non è mai più tornata ai massimi livelli tennistici, anche se ora è fortunatamente una donna di successo e molto attiva.

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Un anno fa Naomi Osaka era numero 72 al mondo, e la priva dal primato di essere la numero uno più giovane del decennio solo la leadership ottenuta nel 2010 dall’allora ventenne Caroline Wozniacki, che poi avremmo apprezzata più per l’avvenenza che per i risultati sportivi. Così non sarà con la Osaka, probabilmente.

Naomi non si chiamerebbe neanche Osaka, in realtà: è il cognome della madre giapponese. Del padre haitiano ha preso la corporatura, è infatti alta un metro e 80 e vicina ai 70 chili, e la carnagione. Il che di certo non avrebbe facilitato il suo crescere da hafu, come vengono definiti i figli di unioni tra giapponesi e stranieri in un paese fortemente razzista.

“In una cultura che misura la bellezza dal grado di remissività delle donne, e dagli strati di biacca bianchissima che si mettono sul volto, la nera Naomi è e continuerà a essere una hafu. Il termine non è dispregiativo, ma c’è chi su di esso è disposto a innalzare staccionate, se non addirittura delle muraglie. Indica i giapponesi di origini multietniche, i giapponesi solo in parte tali, e Naomi lo è a pieno titolo: dal Nihon-Koku, il Paese origine del Sole, dunque del Sol Levante, ha ricevuto i natali, una mamma e un cognome uguale a quello della città di nascita. Il resto, dai centimetri (che sono 180) ai muscoli potenti ma scattanti, che tanto ricordano quelli della giovane Serena Williams, è venuto dal padre, caraibico di Haiti, con la voglia di diventare quanto prima americano.” (scrive in ‘Divina poco nippon’ Daniele Azzolini su Tuttosport).

Proprio il padre portò lei e la sorella maggiore Mari (altra similitudine con Serena, che è la minore di Venus) negli States quando erano molto piccole, iniziò ad allenarle, cercando di imitare proprio Richard Williams, pur non essendo stato un tennista, prima di spostarsi in Florida, terra dei camp più quotati, quando aveva nove anni.

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Se sono solo due gli uomini che hanno saputo completare il Grande Slam, e l’ultimo cinquant’anni fa, sono solo tre le donne e sono passati trant’anni dall’impresa di Steffi Graf. La campionessa tedesca, nata nel 1969 in cui Laver completava per la seconda volta l’impresa, prima del 1988 aveva vinto “solo” un Roland Garros. Quell’anno fu semplicemente intoccabile, aggiunse ai quattro tornei pure l’Oro olimpico, non perse neanche un set in Australia dove dovette giocare una sola volta il tie-break nella finale contro la Evert, asfaltò tutte in Francia e la povera Zvereva per l’unica volta in una finale così importante, deve ancora riprendersi dal doppio 6-0 (Steffi in altre tre partite ne aveva concesso uno solo, di game!). Sull’erba di Wimbledon infine perse un set, il primo della finale contro Martina, cui poi lasciò tre miseri game, per chiuderla a Flushing Meadows con un solo altro set perso nella finale contro la bellissima Gabriela Sabatini.

Dopo Steffi, riuscirà Naomi in un’impresa che è sfuggita persino a Serena? Difficile dirlo, difficile.

Prima di Steffi c’erano riuscite Little Mo Connolly nel 1953 e nel 1970 Margaret Smith in Court, che tuttora è anche la ragazza con più Slam vinti, 24, uno in più di Serena, nonché l’unica ad esserci riuscita in singolare e doppio, con i due del misto in un’era in cui giocare il doppio era importante come il singolare.

Entrambe le loro storie meritano di essere raccontate.

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In una delle prossime ‘Lettera 32’:

La caduta della piccola Mo e Margherita la bigotta