di Enrico Sozzetti
Quanto sono serviti tre mesi di sofferenza? È triste dovere rispondere a niente. Eppure è questa la conclusione della storia della Pernigotti. All’inizio di novembre arriva, improvvisa, la notizia della decisione di chiudere lo stabilimento di Novi Ligure. La proprietà – la famiglia turca Toksoz che ha acquisito nel 2013 l’azienda dal Gruppo Averna – fin da subito ha detto chiaramente che intendeva conservare il marchio per uno sfruttamento commerciale, ma nulla di più. L’incontro ospitato in Confindustria Alessandria cui hanno partecipato le parti sociali, non solo non ha sortito alcun risultato positivo, bensì si è concluso con la comunicazione della decisione di chiudere lo stabilimento della storica azienda nata nel 1860 a Novi Ligure. In cinque anni dall’ingresso nella società della famiglia Toksoz non è mai arrivato, è stata la ripetuta denuncia dei sindacati confederali, un piano industriale o il potenziamento delle produzioni (anzi, una linea è stata trasferita in Turchia). E le parole della proprietà erano state chiare fin da subito quando ha parlato dell’intenzione di “dare corso all’esternalizzazione delle attività produttive unicamente presso il territorio nazionale con l’obiettivo di mantenere la qualità distintiva dei prodotti”.
A questo punto inizia il circo mediatico della politica nazionale. Esemplari le dichiarazioni immediatamente successive di Luigi di Maio, ministro dello sviluppo economico: “Se la proprietà turca non vuole più investire in questo stabilimento deve allora dare la totale disponibilità a cedere il marchio e lo stabilimento: ci impegneremo a trovare nuovi soggetti interessati. Entro la fine dell’anno (il 2018, ndr) faremo una proposta di legge che lega, per sempre, i marchi al loro territorio: non è più accettabile che si venga in Italia, si prenda un’azienda come Pernigotti, si acquisisca il marchio, poi si cambino 5 manager in 5 anni. Sicuramente non si produce un effetto positivo per l’azienda se si prende il marchio e si molla la gente”. Non sono mancati incontri anche con Giuseppe Conte, presidente del Consiglio dei ministri, conclusi con impegni a parole, ma senza fatti concreti. E senza dimenticare ovviamente le ipotesi di acquisto da parte di improbabili imprenditori, marchi nazionali, fondi finanziari stranieri. Come sia finita, purtroppo è noto. I mesi scorrono, i lavoratori (senza stipendio) presidiano lo stabilimento, dimostrando una forza di volontà e una vitalità davvero encomiabili. Forse in cuor loro sapevano già come sarebbe finita, però ci hanno creduto fino all’ultimo.
Il 5 febbraio era l’ultima data possibile per una impossibile svolta. E così è stato con la firma, al Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, dell’accordo con le organizzazioni sindacali relativo all’avvio della procedura di cassa integrazione guadagni straordinaria per 92 dipendenti dello stabilimento novese. La procedura (in vigore dal 6 febbraio) avrà la durata di dodici mesi. “L’azienda – si legge su una nota – ha ribadito nuovamente il proprio impegno a limitare quanto più possibile l’impatto sociale e a ricercare concrete possibilità di re-industrializzazione del sito di Novi Ligure attraverso il supporto dell’advisor Sernet. Sarà cura di Pernigotti comunicare tempestivamente eventuali accordi di re-industrializzazione, cercando di evitare il proliferare di inutili speculazioni, come avvenuto nei mesi scorsi, per non alimentare false aspettative, prive di concreti fondamenti.
Pernigotti ha, inoltre, confermato la volontà di continuare a produrre, distribuire e commercializzare i propri prodotti dolciari attraverso accordi di terziarizzazione in Italia. A tal proposito l’azienda ha già affidato a partner attivi sul territorio nazionale la produzione di alcune linee di prodotto, salvaguardando la qualità e l’attenzione per le materie prime che da sempre caratterizzano l’offerta Pernigotti”. Durante l’incontro al ministero è stato annunciato che sono arrivate “tre manifestazioni di interesse e altre quattro possibili investitori sono in attesa di effettuare un sopralluogo”. Tra quelle interessate “ci sarebbe un’azienda italiana specializzata nella cioccolata, con la quale è in corso uno scambio di informazioni. Ci sarebbe poi una cordata di investitori, alcuni del settore dolciario, e una cooperativa sociale. Tutti e tre questi progetti occuperebbero 30-50 lavoratori”.
Come hanno sempre fatto dall’inizio, i turchi della famiglia Toksoz hanno ribadito di non essere disponibile a cedere il marchio. Solo una certa politica ha continuato a fare leva proprio sul marchio, come possibile grimaldello per scardinare il disegno di smantellamento della Pernigotti, mentre altri, come il deputato alessandrino Federico Fornaro di Leu che ha presentato un disegno di legge che prevede che l’imprenditore che cessa l’attività perde la titolarità del marchio se questo è stato depositato oltre 50 anni prima nel Comune dove c’è la produzione, oppure Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla Camera, che ha presentato una proposta analoga, hanno quanto meno tentato una iniziativa, fuori tempo massimo per la Pernigotti, per affrontare una materia delicatissima e complessa che va ben oltre le parate a suon di slogan. Quella della Pernigotti è una storia che ha messo in mostra, per l’ennesima volta, i limiti del sistema italiano che mette continuamente a rischio la competitività delle imprese, negando l’esistenza del mercato globale. Una riflessione che formula Massimo Berutti, senatore di Forza Italia, a margine del tavolo ministeriale cui ha preso parte. “Quella che è necessaria – afferma – è una azione di sistema che metta le eccellenze italiane in condizione di competere a livello globale senza doversi riparare all’ombra di sterili interventi di tutela. Fino a quando le aziende non potranno competere alla pari grazie alla minor pressione fiscale e alla forza sui mercati stranieri, nulla cambierà e sia i marchi storici, sia quelli recenti continueranno a crollare sotto i colpi di una politica nazionale sempre meno orientata all’impresa”.