di Bernardo Beisso
Ogni tanto mi capita di ospitare contributi dell’amico Bernardo Beisso che, oltre a essere valente musicista nella Banda Brisca, è uomo di notevole potenza drammaturgica e penna eccellente. Ne fa fede il pezzo che segue, dedicato a una di quelle figure con cui può capitare ancora oggi di confrontarsi. Quei personaggi che vivono nell’ombra e che diventano anche la nostra Ombra. Con una pennellata magistrale su un’Alessandria che non è più. Allora, negli anni ’60, il locale di cui si parla godeva di uno stradinom un po’ crudele, “il cesso”. Ma ci si andava volentieri e secondo me quella nomea era proprio ingiusta e cinica. La birra era buona e ci s’imbatteva in personaggi autentici. Come Picchio. (D.A.)
Il vecchio locale si trovava in una delle vie più anguste di Alessandria, via Ferrara, soprannominata “la Crosa”, nel ventennio già via “Arnaldo Mussolini”, quando, l’ironia alessandrina spinse una mano sovversiva a scrivere sotto la targa: “via anche suo fratello”.
Il locale era una via di mezzo tra l’osteria e il bar, avendo della prima mantenuto la mescita di vino e l’avvicendarsi al bancone di vecchi e nuovi avvinazzati e del secondo nuovi tavolini in formica e l’ammonticchiarsi, su parte del bancone, di brioche quasi fresche e tramezzini per la colazione di nuovi avventori in giacca e cravatta, impiegati nelle banche ed uffici comunali del centro.
Nel locale al primo piano erano state ricavate due stanzette adibite a sale da gioco dove, tutte le sere, accaniti giocatori e malavitosi locali convenivano per sfidarsi in appassionanti giochi alle carte. Si raccontava di giocate molto alte con denari che giravano da una tasca all’altra senza che trapelasse nulla; era anche il rigido controllo del proprietario che non voleva correre il rischio di infrangere la legge e rischiare di chiudere il locale.
Ciò che regnava incontrastata in tutto il locale era la nube di fumo stagnante che si mischiava con l’odore del vino che gli avventori rovesciavano sui tavoli o a terra quando i fumi dell’alcol rendevano le mani malferme.
In questo locale il mio amico Ennio e io passavamo, una sera sì e una no, dopo mezzanotte e dopo le prove. Ennio (Dollfus) era il direttore della scuola di recitazione e io facevo parte del gruppo artistico che faceva capo alla stessa. Quasi sempre lui ed io essendo, lui per un motivo io per un altro, da soli e, dinanzi a due boccali di birra da litro, riuscivamo a parlare di teatro sino e oltre le due di notte.
Era la fine degli anni settanta. D’inverno. Ennio, sessantenne, aveva vissuto con e per il teatro, prima quello importante di cartellone poi quello da direttore artistico mettendo la sua grande esperienza al servizio degli allievi.
Io, quasi trentenne, un matrimonio fallito alle spalle, un nuovo amore e un pulmino che, oltre al trasporto delle piccole scenografie della compagnia, serviva soprattutto come rifugio. Ci dormivo, ci ascoltavo musica, ci facevo qualche spinello, ospitavo qualche amico o qualche amica, utile e dilettevole.
Nel bar il proprietario ci riservava un tavolino a lato del bancone, riparato dagli spifferi che la vecchia porta elargiva e anche per rispetto che la figura di Ennio incuteva, non mancava, nel chiamarlo, di anticipare al nome il titolo di “Professore!, cercando di proteggerci dalla fauna che d’abitudine frequentava, a quelle ore, il locale. Non che ci tenessimo, ma questa era la prassi e noi lo lasciavamo fare.
Nel tavolino di fronte, molto esposto, stazionava tutte le notti Picchio. Così lo chiamavano. Non so se quello fosse il suo vero nome o l’appellativo affibbiatogli dagli avventori. Giungeva sempre prima di noi, appoggiava la bicicletta al muro e andava a sedersi. La bicicletta, pur essendo molto vecchia e sverniciata mostrava un aspetto elegante, particolare, come solo una Maino poteva avere. “Supersport”, con freni a bacchetta che sparivano nei tubi del telaio, brevetto alessandrino e targhetta di ottone col nome sul canotto del manubrio. Più di una volta gli avevo chiesto di vendermela, ma lui con cortesia rideva alle mie proposte, alludendo che oltre a servirgli, così conciata non poteva far gola a nessuno. La verità era che ci era affezionato, perché noi alessandrini ci innamoriamo anche delle biciclette.
Sessantenne, piccolo di statura, sempre dignitosamente vestito, sorridente, lo trovavamo li tutte le volte, seduto con il mezzo litro di rosso sul tavolino, forse non il primo della serata. Si alzava e con un ampio sorriso e un po’ di deferenza salutava Ennio. A volte, assumendo una postura teatrale, si avvicinava al nostro tavolo e iniziava a recitare in prosa o a declamare poesia con una voce tra l’impostato e l’alticcio.
Io sorridevo, Ennio lo ascoltava serio, tutti e due lo applaudivamo terminata la performance. Era in quel momento che, tornato sé stesso, proponeva l’interpretazione più vera e alludeva al suo passato da attore, imprecando la sorte, la guerra, e maledicendo la sua bocca sdentata che gli impediva di articolare e pronunciare come si conveniva.
«Ma io i denti me li rimetto, i figli prenderanno il mio posto in rilegatoria e io potrò tornare al teatro, sì, sulla scena! Vero, professore che mi prende con lei?» Ennio sorrideva e rispondeva che aveva una parte pronta per lui in qualunque momento avesse deciso il rientro. Contento, Picchio tornava al tavolo con passi teatrali declamando un intricatissimo scioglilingua.
Così trascorreva l’inverno di quel 1978.
Una notte Picchio appariva più serio del solito. Sul tavolo il consueto mezzo litro e il bicchiere vuoto. Stranamente non salutava nessuno e aveva fatto parole col proprietario. Solo quando vide Ennio entrare, abbozzò un esile sorriso, ma l’espressione appariva malinconica. Venne al nostro tavolo solo sul tardi per recitare la prefazione di quella che sarebbe stata la sua interpretazione più vera e drammatica. Io non capivo se si trattava di qualcosa di già scritto o se le frasi che biascicava fossero di sua invenzione. Cariche di pathos e commoventi, ma affastellate senza un senso logico per me in quel momento.
Ennio, che forse comprendeva meglio di me il miscuglio di vocaboli, lo invitò a sedersi con noi. Lui ringraziò, declinò l’invito e tornò al suo posto. Dopo una decina di minuti fece pace col proprietario, chiedendogli scusa e si recò alla toelette che si trovava ai piedi della scala.
Passò molto tempo, Ennio e io avevamo visto il fondo dei boccali e parlato di certo per più di un’ ora. Il discorso appassionato come sempre ci aveva impedito di seguire gli eventi del bar. Fu il proprietario che ci interruppe chiedendo se avevamo visto Picchio uscire perché, dopo che aveva fatto pace con lui, il tipo era sparito lasciando la bicicletta al muro e il conto da pagare. Che non avesse pagato il conto poteva starci, ma che avesse lasciato la bicicletta, a cui teneva un sacco, appoggiata al muro mi sembrava cosa strana. In quel momento mi ricordai di averlo visto l’ultima volta diretto al bagno. Quel bagno che da più di un’ora era occupato.
«Ecco», disse il proprietario. «Una delle sue solite paturnie.» L’uomo allora andò alla porta del bagno e gridò che il locale doveva chiudere e che se lui, Picchio, aveva qualche grana poteva andare a sfangarsela in riva al Tanaro e non nel suo bagno. Nessuna risposta. Ci avvicinammo anche noi. La porta traslucida lasciava intravvedere una figura in piedi. Quindi Picchio lo faceva apposta, se ne stava stava in piedi lì e zitto. Mentre il tempo trascorreva tra il soffermarsi curioso degli ultimi clienti, qualcuno che lo conosceva fece scivolare sotto la porta del bagno un foglio con disegnata la sua caricatura e la moglie che lo menava col mattarello.
Io ripensai al monologo che ci aveva proposto prima di rintanarsi. Mi ricordai, come potevo, le parole e più ci pensavo più mi convincevo che Picchio aveva inteso esternare una sorta di testamento, certo un po’ folle, dedicandolo all’unica persona da lui stimata, Ennio, colui che, dandogli fiducia, lo avrebbe riportato al teatro suo grande. Forse suo unico sogno. Anch’io in qualche modo rientravo in quel testamento. Tra le frasi confuse che un’ora prima non avevo afferrato c’era questa: «…e la bicicletta prender potrai il giorno che io poeta e cavalier mancato me ne andrò cantando una canzone sconcia alla faccia dei più!»
Allora decisi. Chiesi al proprietario di poter spaccare il vetro vicino alla serratura, ovviamente rimborsandogli il danno. Ma fu il cenno di assenso di Ennio che mi convinse. Anche lui, prima di me, aveva elaborato il passaggio dalla farsa alla tragedia. Afferrato un portacenere, ruppi il vetro. Misi la mano nella spaccata e feci girare la chiave.
E sì, Picchio ci aveva fregati. Dopo essersi legato la cintura dei pantaloni al collo e legato l’altro capo all’attaccapanni, si era lasciato cadere verso il basso piegando le gambe e ora pendeva in quella macabra posizione quasi in piedi.
Il resto è cronaca: la polizia, l’inutile Croce Rossa, il carro mortuario, il Procuratore per poter rimuovere il cadavere, uno dei figli a piangerlo in quella notte da osteria. Ennio e io in Questura come testimoni del fatto e quasi a scagionarsi per avere, io, staccato il corpo da quella posizione sinistra nello stupido tentativo di rianimarlo.
Alle sei uscivamo dalla Questura non prima di aver firmato i verbali. Ci salutammo svuotati e tristi. Dopo quella strana notte non saremmo più andati a bere birra nella Crosa. Io però ci ripassai per recuperare il pulmino posteggiato lì vicino ma, forse, anche per rivedere la birreria e chiedermi se fosse stato un brutto sogno o cosa.
Però, contro al muro c’era ancora la bicicletta di Picchio. Neppure il figlio l’aveva riconosciuta e recuperata.
Vi prego, non datemi del ladro.