Anno nuovo, vita nuova?

Ci siamo: abbiamo aperto una nuova pagina del calendario e ci aspetta un nuovo anno ricco di novità, alcune delle quali molto impegnative e scomode. Ci stanno spiegando in tutti i modi che bisogna far crescere la produttività, specialmente in settori come l’industria, l’artigianato e gran parte dei servizi, che altrimenti rischiano di uscire dal mercato perché non più in grado di dare redditività adeguata.

I lavori ripetitivi, compresi molti settori dell’economia come banche, servizi finanziari, postali e assicurativi, molti settori commerciali della distribuzione dei beni, della vendita e della promozione, agenzie di viaggi, della gestione immobiliare e tanto ancora, diventano ogni giorni di più gestiti direttamente fra produttori e consumatori senza bisogno degli intermediari di un tempo.

Anche l’automazione industriale, che ha fatto passi da gigante, sta contribuendo sempre di più alla progressiva espulsione dal ciclo produttivo di operatori manuali, anche di elevato livello di specializzazione. Persino in agricoltura si stanno affacciando in paesi a forte vocazione monoculturale sistemi di lavorazione dei campi sempre meno esigenti di manodopera, come trattori senza operatore alla guida, sistemi di vendemmia meccanica, sistemi di raccolta di frutta e verdura automatizzata eccetera. Il calo degli occupati rischia di assumere in pochi decenni percentuali molto forti con ricadute esplosive sulle società evolute come la nostra. Bisogna provvedere per tempo, rimodulando i tempi e le modalità per adattarle ad un mercato del lavoro che dovrà essere molto differente da quello odierno.

Tanto per cominciare i tempi lavorativi andranno sicuramente ridotti per salvare quanto più possibile i posti di lavoro per un numero sufficiente di operai ed impiegati e quindi per contro ci si dovrà preoccupare di organizzare il tempo libero giornaliero e non soltanto quello festivo per dare dignità e scopo a chi magari vorrà impiegare il tempo o a vantaggio della famiglia o in settori del volontariato sociale, per evitare che una società perda motivazioni di crescita e di risposta ai bisogni. Anche le scadenze del calendario subiranno cambiamenti di abitudine un tempo consolidate, come le cosiddette ferie che un tempo coinvolgevano interi settori sociali in un blocco omogeneo. Ma cosa intendiamo per calendario?

E’ semplicemente un sistema per conteggiare il tempo e può fare riferimento al ciclo lunare oppure solare. Il calendario lunare è regolato da una cadenza di 29 o 30 giorni (alternativamente) da un plenilunio all’altro con le fasi intermedie, novilunio, primo e ultimo quarto ed è tuttora in auge nel mondo presso alcune società, come quella araba o altre dell’Oriente. Quello solare che tutti conosciamo, più complicato ancora, ha dovuto essere modificato più volte nei secoli (dal calendario giuliano ad esempio siamo passati a quello gregoriano), per renderlo più preciso rispetto ai movimenti della terra intorno al sole che determinano le stagioni. All’interno poi dei 365 o 366 giorni dell’anno, si sono dovute creare delle convenzioni, per dividere i giorni feriali cioè dedicati al lavoro da quelli festivi e feriati, dedicati cioè alla festa o al riposo. Il popolo subordinato ovviamente ha sempre gradito di più questi ultimi, mentre era interesse di chi deteneva il comando che i giorni lavorativi non si riducessero oltre un certo limite. Anche in epoca contemporanea, senza andare tanto lontano, parliamo degli anni settanta, ci fu una discussione sul numero eccessivo delle feste religiose e civili, che portò all’abolizione da parte del governo italiano, di sette (poi ridimensionate a sei con il recupero dell’Epifania) festività dell’anno: le feste religiose di S. Giuseppe, Ascensione, Corpus Domini, S. Pietro e Paolo, e di due festività civili: il 2 giugno ed il 4 novembre.

Si dice sovente che nei secoli passati la gente lavorasse molto di più. Si, certo non c’erano le ferie stabilite contrattualmente. Ora chi è protetto da un contratto di lavoro fruisce da 20 a 30 giorni di riposi all’anno. Ma non è del tutto vero che un tempo si lavorasse molti più giorni all’anno di oggi. La giornata lavorativa, senza i ritmi ossessivi di adesso, poteva anche durare dall’alba al tramonto (salvo le ore centrali del giorno durante la calura estiva più forte per la necessità di far riprendere fiato alle bestie, buoi e cavalli impegnati nei lavori più pesanti come l’aratura o la mietitura), ma i giorni realmente lavorati non erano poi tanti di più di oggi.

Da un editto del Senato subalpino che porta la data del 24 marzo 1728, che stabiliva la tavola dei giorni feriati per tutto il regno sabaudo, leggiamo ad esempio che i giorni in cui non si lavorava negli uffici pubblici, oltre a tutte le domeniche dell’anno, erano i seguenti:
le feste del Signore, cioè il Natale, con il giorno di vigilia dello stesso, la Circoncisione cioè il 1° dell’anno, l’Epifania, la Pasqua di resurrezione con i due giorni seguenti e il mercoledì, giovedì, venerdì e sabato della settimana santa, L’Ascensione, la Pentecoste con i due giorni seguenti, la Santissima Trinità, Il Corpus Domini, l’Invenzione della Santa Croce, poi le festività di Maria Vergine, cioè: la Concezione, la Purificazione, l’Annunciazione, l’Assunzione, la Natività di Maria, poi S.Michele Arcangelo, S.Giovanni Battista, le feste di tutti gli apostoli, S.Stefano, i SS. Innocenti, S.Lorenzo, S.Silvestro, S.Giuseppe, S.Anna, il giorno di tutti i Santi, e poi una serie di ricorrenze particolari: il giorno del beato Amedeo di Savoia, quello della Sindone, quello del miracolo del SS. Sacramento, quello di S. Maurizio protettore delle Stato sabaudo ed a scelta di ciascun paese e città del regno il giorno in cui cadeva la festa del santo patrono di ogni luogo. (ancor oggi, ad esempio, a Castelceriolo il 16 di agosto, festa del santo Patrono San Rocco, viene pagata ai dipendenti la mezza giornata non lavorata e gli uffici come la banca chiudono gli sportelli prima di mezzogiorno).

I tribunali del regno restavano chiusi poi anche dal 24 giugno fino a tutto il 16 di agosto per le Ferie delle Messi e dal 14 settembre fino al 15 di novembre per le Ferie “de le Vindemie” . Proprio così, alla faccia dell’esigenza di amministrare la giustizia!

I dipendenti pubblici erano già allora dei privilegiati; gli artigiani ed i loro dipendenti (la grande industria allora non esisteva) ed anche i contadini non potevano forse contare su un numero così vasto di giorni di festa, ma sicuramente non si perdeva occasione per festeggiare. I nostri nonni ricordavano che ancora nella prima metà del Novecento, le botteghe artigiane dei nostri paesi restavano chiuse per il periodo di preghiera delle Quarantore ed anche per Carnevale si interrompeva il lavoro per qualche mezza giornata. Non si parlava di lavoro notturno, il lavoro festivo era fortemente contrastato dalla Chiesa (anche a Castelceriolo ricordiamo ancora le prediche del parroco contro gli agricoltori che andavano nei campi la domenica, mancando così al precetto di santificare la festa). A quei tempi non si parlava ancora di globalizzazione ed il mito del PIL (prodotto interno lordo) che deve sempre essere in crescita progressiva non era ancora la regola.

Tuttavia, anche se superassimo in parte il mito di una crescita progressiva, perché ci stiamo rendendo conto che tutto non si può misurare in termini di denaro ma ci sono altri livelli di remunerazione della fatica umana, sia manuale che intellettuale, non bisogna dimenticare che le risorse del pianeta non sono infinite e che il benessere non può rimanere circoscritto ad un luogo rispetto ad un altro o ad un individuo rispetto all’ ambiente che lo circonda e che ne delimita potenzialità, obbiettivi e speranze.
Detto in parole povere anche se io fossi miliardario ma fossi costretto a vivere in mezzo ad una moltitudine di straccioni e di gente ignorante non trarrei nessun desiderio di vivere più a lungo, ma al pari di un drogato sarei tentato di farla finita.

Quindi per cui la quale, ci cale, ci cale, ci cale!, come contava Heather Parisi in un “Fantastico” televisivo di molti anni fa. Molti pensavano che si riferisse all’eterno confronto fra le cicale e le formiche, ma non era affatto questa la giusta interpretazione della canzonetta. Il “ci cale” era un modo di dire toscano, perché toscani erano gli autori, che in italiano vuole dire precisamente “mi importa” cioè mi riguarda ed era un messaggio importante, perché nel mondo contemporaneo tutto ciò che mi circonda deve meritare importanza per me. E, ovviamente, se posso devo impegnarmi a migliorarlo in qualche modo per lasciare a chi viene dopo nessun motivo per maledirmi.

Luigi Timo – Castelceriolo