Dulce et decorum est [Lettera 32]

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di Beppe Giuliano

 

Da noi la cosa è passata abbastanza sottotraccia, presi come siamo a litigare (tristemente) attorno al nostro ombelico, ma domenica 11 novembre il centesimo anniversario della fine della grande guerra è stato ricordato da tutto il mondo: a Parigi fianco a fianco c’erano il Presidente americano e Putin, Macron e Merkel, solo per citarne alcuni, mentre la Regina Elisabetta si affacciava da Buckingham Palace, forse le hanno evitato il viaggio in Francia temendo volesse guidare lei, come fa in modo pericolosamente rischioso a Balmoral.

L’armistizio del 1918 venne negoziato a bordo di un vagone ferroviario nella foresta di Compiègne nell’alta Francia. Le delegazioni raggiungono il luogo prescelto con convogli che si fermaro a cento metri di distanza. Come scrive il giornalista Francesco Maselli, “Il luogo deve essere sufficientemente vicino al fronte per permettere un rapido spostamento delle delegazioni, ma non troppo, per evitare pericoli inutili. Inoltre deve essere assolutamente segreto: se tra i soldati si spargesse la voce che i negoziati sono cominciati ci sarebbe il rischio di uno sfaldamento incontrollato dei ranghi. I delegati si muoveranno in treno per essere più rapidi e poter portare con sé il necessario per affrontare delle discussioni che potrebbero durare settimane. E’ proprio in treno che le due parti decidono di discutere…”

L’armistizio fu firmato alle 5 del mattino dell’11 novembre 1918, ma la guerra sarebbe finita solo più tardi, all’undicesima ora dell’undicesimo giorno dell’undicesimo mese, così che i combattimenti proseguirono per tutta la mattina. “La sofferenza di chi morì o rimase menomato in quelle ultime ore fu inutile” ha scritto uno storico americano “e, dopo la guerra, fu oggetto di un’inchiesta del Congresso.”

Il quadro più efficace della follia che fu la prima guerra mondiale lo fa lo storico Martin Gilbert:Più di 9 milioni di uomini – soldati, marinai e aviatori – furono uccisi… Altri 5 milioni di civili si ritiene siano morti a causa dell’occupazione nemica e dei bombardamenti, o di stenti e malattie. Il genocidio degli armeni nel 1915 e le epidemie di influenza che dilagarono quando ancora infuriava la guerra furono due dei devastanti effetti del conflitto… Fra il 1914 e il 1918 si combatterono due guerre molto diverse fra loro. La prima fu una guerra di soldati… nella quale la sofferenza fisica e morale dei singoli assunse proporzioni gigantesche, in particolare nelle trincee di prima linea. La seconda fu una guerra di governi e di sovrani, di propagandisti e idealisti, una guerra traboccante di ambizioni, ideali politici e aspirazioni territoriali, altrettanto decisiva, per il futuro degli imperi, delle nazioni e dei popoli, di quella combattuta sui campi di battaglia… Il nome che le è stato dato, la Grande Guerra, sta a indicarne le proporzioni fino ad allora inusitate… Un periodo di tempo relativamente breve, quattro anni e tre mesi, ha ispirato, sconcertato e turbato l’intero secolo che l’ha seguita.”

Eppoi Martin Gilbert dà la misura delle sofferenze, quantificandole: “Se ognuno dei 9 milioni di soldati morti nella prima guerra mondiale avesse una pagina tutta per sé, che ne narrasse le vicende e il calvario – le speranze in tempo di guerra e la vita e gli amori negli anni precedenti -, si comporrebbero 20.000 volumi grossi come questo” scrive in ‘La grande storia della prima guerra mondiale’ che ha circa 700 pagine.

In diversi di quei volumi ci sarebbero le storie dei tanti sportivi che hanno combattuto la Grande Guerra, e che vi sono caduti. E diverse storie sarebbero anche “di casa nostra”.

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Gianni Brera scrive:

“Milano I è un magnifico atleta longilineo… Ha carattere imperioso e franco. Dà sulla voce ai suoi perché abbiano ad esprimere il massimo. Quando le cose non procedono al meglio Milano I si rimbocca le maniche della casacca e questo significa che è venuto il momento di darci dentro con il ringhio… Si apprende che la rivalità tra vercellesi e casalesi è sempre così viva che i rispettivi capitani, Milano I e Barbesino, non si rivolgono la parola nemmeno quando si trovano a far parte dello stesso reparto.”

Giuseppe Milano, il primo di quattro fratelli, era allenatore-giocatore della Pro Vercelli che all’epoca vinceva spesso il campionato. Erano gli anni del quadrilatero, e infatti nel 1914 a battere i vercellesi fu proprio la squadra di cui era invece capitano Luigi Barbesino, mentre tra i grigi era venuto a giocare Milano II, Felice, che a Vercelli di scudetti ne aveva vinti cinque, contava pure cinque presenze nella nazionale.

Cadde un 11 novembre Felice, tre anni giusti prima dell’armistizio, nella quarta battaglia dell’Isonzo, a Zagora che adesso è in Slovenia, frazione di Canale d’Isonzo. Le battaglie combattute sul fiume che scorre tra la provincia di Gorizia e la Slovenia furono in tutto dodici, e l’ultima la ricordiamo per la disfatta di Caporetto. In quella in cui morì Milano II, durata poco più di venti giorni, morirono più di 11mila uomini, 7500 italiani cui si sommano altrettanti dispersi e 34mila feriti. Le perdite italiane complessive, nel solo 1915, raggiunsero le 110mila persone.

Tra gli altri grigi non sopravvisse alla guerra pure Fausto Banchero, ucciso dalla spagnola, l’epidemia che tra il 1918 e il 1920, probabilmente aiutata anche dalla guerra perché i soldati ammassati al fronte favorirono la diffusione del virus, colpì nel mondo circa 500 milioni di persone, ne uccise tra 50 e 100 milioni, arrivando a ridurre le aspettative di vita di ben dodici anni!

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Dei quattro fratelli Milano solo Felice, dunque, non sopravvisse alla guerra, anche se un altro andò incontro a una fine violenta che con i postumi della Grande Guerra ha comunque a che fare.

Aldo, il terzo, giocò nella Pro Vercelli nelle stagioni ‘19-20 e ‘20-21. La notte del 7 gennaio 1921 partì con altri ex combattenti della prima guerra mondiale a bordo di un camion. Avevano il proposito di abbattere ad Albano Vercellese una lapide con una scritta ai loro occhi diffamatoria ed anti-patriottica perché di chiara ispirazione socialista ed antimilitarista. La frase riportata era “Ai morti che dettero ignari la giovinezza alla causa del capitalismo”, ed era ovviamente riferita ai caduti della Grande Guerra. A presidio della lapide, che era già stata in precedenza vandalizzata, il sindaco socialista aveva però messo un dipendente comunale il quale sparò a vista con il fucile sul gruppo uccidendo il calciatore. In seguito alla sua morte gli venne intitolato il Fascio di Vercelli.

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Altrettanto avventurosa fu la fine del capitano del Casale Luigi Barberino, quello che manco si parlava con Milano quando si incontrarono in trincea nello stesso reparto. Lui dopo la guerra e la carriera di calciatore fu anche allenatore e avrebbe potuto vincere lo scudetto con la Roma, dove giocavano grandi calciatori come Bernardini e i freschi campioni del mondo Ferraris IV, Masetti, Allemandi, Monzeglio, quest’ultimo nato a Vignale Monferrato e cresciuto coi nerostellati.

Rovinarono i suoi piani, una notte del settembre 1935, i tre assi argentini Guaita (El indio, chiamato così per il colorito olivastro: noi lo naturalizzammo e vinse infatti anche lui il mondiale), Stagnaro e Scopelli con una rocambolesca fuga, pochi giorni prima dell’inizio del campionato, in auto fino a La Spezia, quindi in treno fino a Ventimiglia e di lì in Francia, per arrivare poi in nave fino in Argentina. Temevano di venir arruolati per la guerra in Etiopia.

Barbesino se lo ricordava anche Giulio Andreotti: “Era un uomo dalla corporatura che metteva soggezione, me lo ricordo in quanto andava a mangiare con la squadra nel ristorante vicino a casa mia. Aveva una forte personalità che spesso lo rendeva un po’ antipatico ma era sicuramente un uomo di comando”.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale si arruolò con la Regia Aeronautica vestendo la divisa da ufficiale, scomparendo nel nulla durante un volo nel mare di Sicilia, in un giorno di primavera del 1941.

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Anche l’allenatore di quella Alessandria in cui militava Felice Milano cadde in guerra. Era l’inglese Giorgio Smith, allenatore-giocatore, che avevamo ingaggiato dal Genoa. Morí nel maggio 1917, a 28 anni, combattendo nelle Argonne in Francia.

Era un innovatore, e fu il primo a impostare il gioco moderno per cui i grigi si distinsero negli anni venti. Ebbe anche il merito di fare esordire, nel marzo del 1915, il giovanissimo Adolfo Baloncieri, uno dei più grandi di sempre a vestire la nostra casacca. Successe contro il Milan, finí 0-0 e per via del pareggio non potemmo qualificarci per il torneo finale che avrebbe assegnato lo scudetto.

Torneo interrotto da un telegramma di nove parole domenica 23 maggio 1915: “In seguito mobilitazione per criteri opportunità sospendesi ogni gara”.

La Federazione Italiana Giuoco Calcio comunicò così alle squadre della Prima Categoria, l’equivalente dell’odierna Serie A, la decisione di fermare il campionato.

Il giorno dopo, 24 maggio, il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti.

(segue)

 

Il giocatore cerchiato nella foto (archivio La Stampa) è Felice Milano.