Cosa ci insegna il caso Pernigotti? [Piemonte Economy]

di Cristina Bargero

 

“Hanno buttato giù l’Odeon e ci faranno un discount un altro sogno che uccidono un’altra volgarità… qualcuno ha detto è il segno che cambia il tempo” cantava un profetico Eros Ramazzotti e molti dei teenager di allora intonavano spensierati le note di quel testo del 1996.

 

Solo in seguito iniziarono a comprenderne pienamente il senso, anzi a provarne le conseguenze nella vita quotidiana.

Se pensiamo a quel periodo, siamo sopraffatti dalla nostalgia, soprattutto perché avevamo vent’anni in meno, ma rimuginare sui bei tempi andati non serve a nulla.

I cambiamenti che si sono succeduti nell’economia mondiale, connessi alla deindustrializzazione dei paesi più avanzati, alla globalizzazione e all’avvento sempre più massiccio delle tecnologie sono fenomeni inevitabili e non da demonizzare, quanto piuttosto da governare.

Il recente annuncio della chiusura dello stabilimento di Novi Ligure della Pernigotti, nata nel 1860 come drogheria nella piazza del mercato della cittadina piemontese, trasformata in srl nel 1868 e fornitrice di gianduiotti della Real Casa, marchio storico della produzione di cioccolato, rappresenta, in un certo senso, la metafora delle difficoltà del capitalismo italiano.

Ceduta nel 1995 dall’ultimo erede Stefano Pernigotti alla famiglia Averna e da quest’ultima, nel 2014, al gruppo turco Toksoz, operante nel settore dolciario, farmaceutico e energetico, stando ai dati dell’ultimo bilancio disponibile (2016), mostra una perdita di esercizio superiore a 13 milioni di euro e una redditività delle vendite pesantemente negativa.
Di qui la decisione della proprietà di chiudere la storica fabbrica di via della Rimembranza, oggi dedita in particolare alla produzione di preparati per gelato, ma di mantenerne il marchio.

La vicenda, oltre ad indurre a una forte preoccupazione riguardo al destino dei 180 lavoratori (tra dipendenti e interinali coinvolti) e delle loro famiglie, conduce a una riflessione sul tessuto imprenditoriale italiano, oberato da burocrazia, tassazione elevata e costo dell’energia non concorrenziale rispetto ai propri competitor esteri che, quindi, non si trova, spesso nelle condizioni di impedire che le acquisizioni di settori importanti del Made in Italy vengano compiute da grandi gruppi interessati essenzialmente al marchio.

Non si tratta, tuttavia, di pensare a politiche protezionistiche, che per un paese membro dell’Unione Europea, ma soprattutto importatore di materie prime, qual è l’Italia, sarebbero anacronistiche ed impossibili, quanto piuttosto di creare condizioni più competitive per le nostre imprese e tutelare, a livello comunitario, quei settori in cui il marchio rappresenta un valore aggiunto.

Gli investimenti esteri diretti (IDE), se da un lato ci dicono quanto sia attrattivo un paese, dall’altro devono essere regolamentati a livello europeo (esiste già una bozza di regolamento solo per gli interessi strategici quali energia, telecomunicazioni, difesa ecc) anche riguardo ai marchi, così da evitare che gli IDE si traducano in una mera operazione di shopping commerciale, che, nel medio periodo, va a detrimento del tessuto produttivo e dell’occupazione.