L’ascensore sociale? Funziona solo dal piano terreno in giù

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Qualcuno potrebbe obiettare: pazienza, si vede che c’è un guasto; vorrà dire che chi vuole potrà prendere le scale in attesa che riparino l’impianto, ma il portinaio di turno ci avverte che l’amministratore ha detto che le scale sono pericolose e non è possibile salire senza essere accompagnati da persona di sua fiducia. Ma guarda un po’, ma allora perché non chiamano gli operai a ripararle?

Perché siamo tornati indietro di parecchi decenni, all’epoca in cui per conquistare il diritto a salire l’”ascensore sociale” per alcune classi come i contadini e gli operai era quasi impossibile, se non si era fortunati di abitare al servizio di una casa di nobili o di ricchi munifici e dalla mentalità progressista. Coloro che detenevano la ricchezza, ed in maggioranza erano i proprietari fondiari, avevano interesse che i servitori rimanessero sottomessi, vivessero nell’ignoranza e nella precarietà e specialmente le donne fossero, oltre che prive del diritto di voto politico, anche relegate a mansioni subalterne, praticamente serve a salario zero.

Se si pensa che le donne fino al 1940, anche se avevano studiato, nella pubblica amministrazione non potevano accedere all’impiego e solo la guerra le aveva emancipate nel mondo del lavoro in settori nei quali erano potute entrare solo grazie al fatto che la manodopera necessaria era carente a causa della chiamata alle armi dei maschi.

Nel dopoguerra, per fortuna, cambiarono di colpo molte cose e ricordo bene che, a dispetto della barriera posta fra coloro che erano destinati alle superiori e coloro che invece erano destinati alle scuole professionali, nelle scuole medie da me frequentate e perfino nel collegio Santa Chiara collegato alla scuola Cavour di allora, che era nell’attuale sede del sindacato CGIL, molti allievi che venivano da origini contadine erano fra i primi della classe per intelligenza e risultati. Hanno avuto poi un percorso professionale di tutto riguardo, occupando posti di lavoro che prima della guerra sarebbero stati appannaggio esclusivo dei figli di buona famiglia.

Ho poi dovuto per scelta orientare i miei studi scolastici anch’io su un istituto tecnico, il Vinci di Alessandria, ma ricordo che anche lì molti fra i migliori allievi erano figli di operai o di artigiani o addirittura di contadini. Il mio ricordo più intenso lo posso portare a titolo di esempio: nella mia classe c’era un ragazzo che veniva da Castelnuovo Bormida e tutte le mattine, dopo aver aiutato il papà anziano nella stalla (era un piccolo “particolare” con poca terra e poca vigna) inforcava al mattino presto la bicicletta per raggiungere Cassine, dove poi saliva sul treno che lo portava ad Alessandria. Arrivava alle lezioni sovente con la cartella con dentro i libri sbagliati e molti libri se li faceva prestare dai compagni perché nessuno glieli aveva comperati, aveva un solo quaderno sul quale prendeva appunti, ma quando non gli ciondolava la testa per il sonno perduto, cercava di stare attento alle parole del professore. I voti che prendeva non erano certo molto brillanti ma lottava per raggiungere la sufficienza. All’Esame di Stato finale si prese ben cinque materie da riparare a settembre e molti di noi compagni lo demmo per spacciato, ma poi invece all’esame di riparazione venne promosso con buoni voti e con sorpresa vedemmo il suo nome fra i “licenziati”.

L’”ascensore sociale” per quel ragazzo funzionò, perché poi seppi che aveva un buon posto di lavoro a Torino, anche se la vigna di suo padre pare non l’avesse dimenticata. La stessa vicenda fu comune a tanti giovani di modeste origini negli anni del dopoguerra.
Ma quale speranza possono avere oggi i giovani italiani di salire ancora sul mitico “ascensore sociale” che li porti a fare che so io: il medico, il professore, l’ingegnere, l’avvocato, l’ufficiale di finanza o dell’esercito? Secondo me la speranza si sta affievolendo, soprattutto per un motivo serio, a parte quello meno serio già ben noto della raccomandazione del politico, del sindacalista, del parroco, eccetera.

Ormai la raccomandazione funziona ancora bene solo per i posti di basso livello, dove le conoscenze personali sono ancora ben accette, ma per il resto non so, ma mi pare che un giovane ambizioso faccia prima a mettersi direttamente in politica lui piuttosto che aspettare la spinta di favore di un politico già occupato, che per parte sua ha il suo bel da fare a proteggere con le unghie e con i denti il cadreghino che occupa. La lotta è sempre più dura e le cordate politiche sempre più incerte ed inaffidabili.

Qualcuno dice: i giovani abbiano il coraggio di mettersi in proprio, ma anche per fare l’imprenditore oggi giorno se è già molto difficile per uno che abbia ereditato l’azienda dal padre, lo è ancora di più per uno che parta da zero. Ci vogliono capitali e non tutti hanno dei parenti disposti a mettere delle firme di garanzia in banca e se poi comunque il costo del denaro non è ripagato dal guadagno dell’investimento specie se le prospettive sono, come purtroppo sembra, di una risalita dei tassi, allora che si fa?

Molti hanno preso la valigia e se ne sono già andati, se va bene a Milano oppure all’estero addirittura, dove a quanto sembra in paesi come la Germania sono ben contenti di assumere diplomati e laureati che si trovano già pronti, formati a spese dell’Erario italiano e delle famiglie italiane.

Ma veniamo a quello che ho prima chiamato motivo serio: la scuola pubblica del nostro paese. Se si continua di questo passo chi vorrà avere qualche speranza di prendere l”ascensore sociale” dovrà pagarsi scuole private di eccellenza, frequentare master di specializzazione professionali, farsi le ossa all’estero a sue spese, vincere la concorrenza di sempre nuovi attori che si affacciano sulla scena del mondo del lavoro, cioè gli immigrati. Forse sarà per quello che cerchiamo di chiudere loro le porte d’ingresso in Italia. Perché abbiamo paura che un nero o un cinese o chiunque altro possa prima rendersi conto di come funzionano le cose e poi pretendere anche lui di salire sull’”ascensore”.

Anche i figli dei signori di un tempo temevano di perdere la corsa, per cui le porte ai figli degli operai, degli artigiani e dei contadini erano interdette e le donne più ancora che gli uomini venivano discriminate e allontanate con la scusa che erano diverse e inadatte a molti ruoli. Abbiamo poi capito che non era vero.

Adesso, nel nome del proclama “prima gli italiani!”, innalziamo ridicoli muri contro i neri che si prestano volenterosamente a raccogliere l’immondizia nelle città della Padania lombarda, e vogliamo controllare i documenti catastali, di chi viene dall’Africa e vuole mandare i figli nella nostre scuole, prima di ammetterli alla mensa scolastica . Ma quando mai abbiamo chiesto ai figli dei salariati che venivano qui da noi dal Veneto negli anni Cinquanta a lavorare nelle nostre campagne e ai figli degli operai disoccupati le visure per poter aver diritto alla refezione scolastica gratuita all’epoca in cui ho frequentato le elementari nel mio paese? Mi vergogno di partecipare ad una comunità che arriva a concepire queste cose meschine! Io non ho paura di un futuro medico nero, né di un carabiniere eritreo o siriano. Per fortuna la storia insegna che i muri prima o dopo sono destinati a crollare. Speriamo non per opera di un terremoto sanguinoso e devastante.

Luigi Timo – Castelceriolo