Sfida senza paura: la breve vita di Pre, il re corridore [Lettera 32]

di Beppe Giuliano

 

 

C’era una sorta di leggenda cittadina, secondo cui le nuvole sopra Hayward Field si diradavano quando lui usciva a riscaldarsi prima di una gara. Io non dico che sia vero, ma so che questa faccenda l’ho vista coi miei occhi. Mi è capitato anche più di una volta. Lui arrivava, cominciava a correre e la gente iniziava ad applaudirlo. E poco alla volta le nuvole si muovevano, il cielo si puliva. E quando il sole brillava, c’era sempre qualcuno che strizzava l’occhio al vicino di posto e diceva: ecco, è successo ancora.

*****

C’è una biografia su un atleta che merita di essere letta. Si chiama ‘La leggenda del re corridore’, è uscita nel 2011 per Bradipolibri e l’ha scritta Marco Tarozzi. Parla di un atleta che non ha mai vinto praticamente niente, anche perché morì giovanissimo, ma è ancora ricordato a quarant’anni di distanza anche da chi non l’ha visto correre mai.

Non tanto perché morì come un James Dean: “la MGB di Steve non seguì la traiettoria della curva. Attraversò la linea di mezzeria, come se avesse dovuto schivare un ostacolo improvviso, e andò a sbattere contro un muro di roccia naturale che delimitava la strada sulla sinistra. La macchina si sollevò, si rovesciò su sé stessa. Steve restò incastrato sotto. Non aveva allacciato le cinture di sicurezza, che probabilmente avrebbero potuto salvarlo, vista la velocità contenuta. Al momento dell’impatto, la macchina era in seconda marcia e non doveva procedere a più di quaranta, cinquanta chilometri all’ora.” E, beffa delle beffe, lui che aveva una capacità polmonare fuori dal comune morì proprio perché il suo torace rimase schiacciato dal peso della MGB capottata.

Soprattutto perché “Steve Roland Prefontaine era destinato a diventare un front-runner: la sua gara perfetta era quella vissuta a ritmi elevatissimi, in cui la selezione naturale avrebbe portato al traguardo quelli con la soglia di sopportazione più elevata. E dopo gare del genere, anche i campioni dotati di uno spunto finale migliore del suo avrebbero dovuto pagare pegno al suo coraggio.”

*****

Divenne una specie di leggenda nello sport americano. Vinceva qualsiasi gara di mezzofondo, sempre correndo con un coraggio unico. Intanto viveva in una roulotte, perché non poteva permettersi l’affitto a Eugene, dove frequentava l’Università dell’Oregon.

Correva, vinceva, e sognava le Olimpiadi.

“Tra gli altri, si incuriosì alla sua storia anche Gian Paolo Ormezzano, allora inviato di Tuttosport, che dagli States inviò nel luglio di quell’anno un reportage sul “Dio pedone che vive in roulotte”. Raccontando quel ragazzo che sognava di vincere l’oro dei 5000 alle Olimpiadi.”

Già, le Olimpiadi. Si parla di Monaco 1972. Nessuno altrettanto giovane (era del ‘51 quindi ventunenne) aveva mai vinto una gara di fondo. Lo sognava da sempre, ma ora che era lì vicino il sogno era già finito prima del via della corsa, la strage del villaggio lo aveva segnato profondamente togliendogli il grande entusiasmo che nutriva per i giochi.

Oltretutto “nasce una gara completamente diversa da quella che Pre avrebbe voluto. Dannatamente lenta. Per dire: la prima metà della finale dei 10000 metri era stata impostata con un ritmo più veloce. E’ la finale olimpica dei 5000 più forte della storia, ma scorre senza scosse”.

A scuoterla naturalmente ci pensò Pre, con la solita generosità. Strappò più volte con ferocia, fino all’ultimo giro. Quando pagò lo sforzo. Lo sopravanzò Lasse Viren, il finlandese che spariva per anni e poi vinceva le Olimpiadi, che con certezza fu uno dei primi a ricorrere all’auto-emotrasfusione (all’epoca non illegale). L’astuto tunisino Gammoudi lo chiuse un paio di volte, niente di illecito ma gli ruppe il ritmo e nel finale lo passò anche un inglese: quarto, fuori dal podio. Quattro anni per una rivincita che invece non sarebbe giunta mai più.

*****

Non era solo un corridore Pre. Era un ragazzo che cresceva velocemente, pieno di idee, di interessi, e di generosità.

“Dal ’73, senza proclami, Prefontaine aveva iniziato a frequentare i detenuti del penitenziario statale, preparando loro tabelle di allenamento e programmi sportivi e fondando un club che vent’anni dopo la sua morte contava ancora più di cento tesserati.”

Era anche un precursore, per tantissime ragioni, in un mondo che pretendeva ancora di considerare gli atleti disinteressati dilettanti fu “il primo “testimonial”, parola che allora non si usava, di una piccola azienda fondata a Eugene da Bill Bowerman, suo tecnico alla University of Oregon, e dall’ex atleta Phil Knight. Bowerman inventò scarpe sperimentali e le chiamò “waffle”, perché lavorava alle suole con una gomma speciale che plasmava sulla macchinetta per i dolci “presa in prestito” dalla dispensa della moglie. Quelle scarpe venivano portate in giro con una macchina, a margine delle riunioni su pista in Oregon, e proposte agli atleti. La piccola azienda si chiamò dapprima Blue Ribbon Sports, ma presto i suoi fondatori cercarono un nome più propizio ed evocativo, scegliendo quello della dea greca della vittoria, Nike… uno soltanto ha l’onore di avere una statua che lo ricorda davanti all’entrata del quartier generale di Beaverton, in Oregon. Steve Prefontaine, naturalmente.”

*****

Stava diventando grande Steve Prefontaine, tra il 1974 e il 1975.

Venne di nuovo in Europa, anche a Milano, corse all’Arena e fu ospite della Pro Patria, gli regalarono la loro maglietta e lo apprezzò molto, come vedremo.

Organizzò una tournée di atleti finlandesi negli USA, contro la volontà della federazione che non sopportava la intraprendenza di quel ragazzo cocciuto.

Corsero a Coos Bay sulla costa dell’Oregon, quindicimila abitanti, il più noto e amato proprio lui, Pre: “regalò alla sua città natale, in una sera fredda di primavera, l’ultimo dei suoi primati americani: il 9 maggio corse e vinse, sulla pista che aveva visto i suoi primi progressi da corridore, i 2000 in 5:01.4. I ragazzini della piccola città, dopo la gara, gli si affollarono intorno, e lui se li portò dietro per quasi un’ora, sul campo di Marshfield. Tra quei ragazzi, si sentiva di nuovo a casa.”

A fine maggio corsero anche a Eugene, in quel campo dove nessuno lo aveva battuto, mai, quello dove si diradavano le nuvole quando sulla pista scendeva lui, quello dalle cui tribune faceva il tifo per lui Ken Kesey, uno dei padri della controcultura, autore di un romanzo come ‘Qualcuno volò sul nido del cuculo’.

“Fu una gara diversa dal solito, per Pre. Che per l’occasione indossò la canotta nera con la scritta bianca “Norditalia” che gli avevano regalato gli amici della Pro Patria dopo il meeting dell’Arena dell’anno prima.”

Era l’ultimo giorno della tournée, fine maggio 1975. Festeggiarono, Pre bevve qualche birra, accompagnò a casa Frank Shorter (che a Monaco aveva vinto l’oro olimpico nella maratona). Chiacchierarono del futuro, dei sogni, come fanno due ragazzi dopo una bella serata, prima di dirsi buonanotte. Poi ripartì con la sua MGB. Andava piano giù da Skyline Boulevard, quaranta cinquanta all’ora…