Ho visto, per la prima volta dopo molto tempo, una partita di calcio di serie A.
Tutta.
Integralmente.
Eppure, scaduto il novantesimo, non ho un ricordo delle azioni da gol, di quelle andate a vuoto e di quelle finalizzate, dei falli, delle proteste, dei commenti da telecronaca e di quelli tecnici.
Passo i minuti a fissare lo schermo ma con lo sguardo lontano.
I giocatori non conoscono il senso di appartenenza alla squadra di club.
Ciò è naturale, visto che il 90% di essi sono professionisti del pallone che si fanno acquistare dal miglior offerente e il loro unico scopo è quello di dimostrare quanto valgono per accrescere il proprio valore sul mercato.
Forse è per questo che le azioni di gioco – se e quando ci sono – si assomigliano tutte, sono impersonali; i movimenti sono seriali, le simulazioni sono telefonate, i tagli di capelli risultano scontati e le braccia tatuate banali.
Manca la fantasia. Perfino nei nomi dei calciatori che in confronto a quelli del passato sembrano prevedibili.
Nessuno più si chiamerà Pelè, Platini, Mazzola o Maradona.
Ho il ricordo della camminata altezzosa di Capello, dei colpi di testa in area di Bettega, delle nobili figure di Beckenbauer e Scirea, dei dribbling di Conti e delle scorribande laterali di Rocca, dei dread di Gullit e del ciuffo di Cruyff, della voce nasale di Nando Martellini e di quella affettata di Bruno Pizzul, della sigla televisiva di Novantesimo Minuto e di quella radiofonica di Tutto il Calcio Minuto per Minuto.
Ricordo Paolo Valenti in studio, Tonino Carino da Ascoli, Luigi Necco da Napoli, Giorgio Bubba da Marassi e il giovane Carlo Nesti da Torino.
Ricordo anche che non si gioiva come forsennati dopo aver segnato un rigore assegnato dall’arbitro con dubbia certezza.
Il triplice fischio d’inizio decreta la fine del mio viaggio nel tempo.
Non importa come sia finita e quale sia il risultato.
Ciò che conta è che il viaggio mi abbia fatto stare bene.
Questo è lecito: gioire dopo aver fatto bei sogni.