Colin e il Drake [Lettera 32]

di Beppe Giuliano

La serie nera (4)

 

Era un uomo solo che odiava la solitudine. “Non lo vede che sono un cane in mezzo a una strada deserta?” disse un 24 dicembre al fidato (fino alla dolorosissima rottura) Romolo Tavoni che voleva rincasare e passare la sera della vigilia di Natale in famiglia, convincendolo a restare invece lì con lui nell’ufficio monastico di Maranello.

Era diffidente: “Pensate male e siete alla metà della realtà”.

Pessimista: non aveva la fede e, dopo la morte del figlio ventiquattrenne battuto da una lunga malattia, aveva perso anche ogni speranza.

Sapeva tutto: non si spostava mai da Modena e Maranello (“I vecchi sono come i mobili antichi, meno li sposti e più durano” è una delle sue famose frasi) ma sapeva tutto e si premurava di far sapere agli interlocutori (uno dei suoi molti vezzi) di essere informato anche di ogni più nascosto segreto.

Ambiva a essere giornalista sportivo, e infatti i giornalisti che stimava (pochi e dopo un’accurata selezione) potevano entrare nel suo (chiusissimo) mondo: si raccontò volentieri a Enzo Biagi. Oliviero Beha lo conquistò quando, al primo incontro, non prese neanche un appunto, per scrivere poi un resoconto accurato dell’intervista.

Viveva esclusivamente per le sue automobili. Che dovevano vincere. Quando perdeva evitava di farsi vedere a Modena, non andava neanche più dal fidatissimo barbiere, uno dei pochi che osavano salutarlo con un semplice “buongiorno, Ferrari” mentre tutti gli altri cercavano di capire con poca fortuna se chiamarlo “commendatore”, “ingegnere”.

Drake rimane invece il soprannome, tra i tanti che gli diedero, più ricorrente.

Enzo Ferrari è ormai morto da quasi trent’anni (14 agosto 1988). Era un uomo del diciannovesimo secolo, per nascita (febbraio del 1898, con la doppia data 18 o 20 per un famoso ritardo nel registrarlo all’anagrafe a causa di una fittissima nevicata). È uno degli italiani più famosi nel mondo (e più grandi) del XX secolo, anzi mi azzardo a scrivere di sempre.

“Su di lui sono state scritte decine di libri, ma probabilmente nessuno riuscirà mai a spiegarlo”.

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Colin Chapman è vissuto molto meno del suo grande avversario, una cinquantina d’anni, se non vogliamo credere alle teorie “è vivo, sta in Brasile, ha fatto la plastica facciale, è dovuto scappare dopo i soldi sottratti a De Lorean” che sono molto circolate, a confermare la notorietà “alla Elvis” che il geniale inglese aveva acquisito nel mondo dei motori.

A partire dagli anni sessanta, e per tutti i settanta, è stato il massimo “garagista”, per usare una definizione sprezzante coniata proprio da Ferrari, quando i costruttori inglesi di vetturette presero a batterlo con una certa regolarità.

Le sue macchine chiamate “Lotus” erano le più veloci, e le più fragili (oltre che quelle da cui gli altri copiavano le geniali soluzioni tecniche). Quasi sempre erano anche le più belle. Se c’è una livrea con cui molti identificano subito la Formula 1 oltre al rosso Ferrari, ebbene è il nero e oro delle Lotus costruite nel piccolo villaggio di Hethel nel Norfolk, nel periodo in cui le sponsorizzava JPS.

Tra l’altro è interessante il parallelo tra Hethel e Maranello. La sede di Lotus è un paesino con meno di cinquecento abitanti, Maranello ne ha invece circa diciassettemila (ed è molto cresciuto, erano circa seimila quando Ferrari aprì lì la fabbrica nel 1943): dà un po’ l’idea delle proporzioni nel confronto tra un (comunque piccolo, se vogliamo) costruttore come il cavallino rampante e gli inglesi, artigiani che acquistavano le componenti meccaniche e le assemblavano con telai e carrozzerie, appunto nella definizione del Drake: i garagisti.

Che avevano inesorabilmente battuto le rosse, con le sole eccezioni del mondiale piloti e del trofeo costruttori 1961 e ‘64, a partire dal 1958 con Vanwall – un giovane Chapman fece la sua parte, progettandone il telaio – e dal 1959 per i piloti con Jack Brabham alla guida della Cooper. Come scrisse Charles Fox: “la reale influenza britannica sul mondo delle corse fu l’introduzione di piccole, leggere e maneggevolissime macchine a motore posteriore, che rapidamente decretarono la fine della dinastia fino ad allora regnante dei motori anteriori, esigendo inoltre una nuova razza di piloti”.

Fu poi la volta della BRM, il più anziano team inglese della massima formula, nel 1962 con Graham Hill, il più british dei piloti (tornerà a guidare per Chapman dopo la morte di Jim Clark, vincendo così il secondo mondiale nel 1968), appunto due volte di Clark, grande driver che aveva con Chapman un rapporto di amicizia inusuale in un mondo allora consapevole che i piloti sovente non sopravvivevano al weekend di corse, di Brabham diventato a sua volta costruttore e poi della solida accoppiata formata da Jackie Stewart e da Ken Tyrrell. Mentre un pilota della Lotus vinceva nuovamente nel 1970, unica stagione in cui il campionato fu assegnato postumo perché Jochen Rindt si era ucciso durante le prove alla Parabolica di Monza.

“Non mi reputavo il manager di Rindt, piuttosto un amico con il quale facevamo cose insieme e dividevamo la stessa passione… Quando è morto Jochen Rindt è stato davvero un brutto momento.” Le frasi sono di Bernie Ecclestone, che dopo la morte del suo pilota era rimasto nell’ambiente comprando dal vecchio campione australiano diventato costruttore la Brabham, unendosi così al gruppo dei “garagisti”.

(Tra l’altro con questa statistica sui titoli mondiali torniamo a dove c’eravamo lasciati nelle precedenti puntate, cioè alla fine del campionato 1973, vinto da Jackie Stewart e proprio dalla Lotus, e da qui ripartiremo).

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“Nell’attrezzeria della Ferrari aggiustavano le armi dei partigiani e le nascondevano dietro lo stabilimento, dove c’era una porticina nascosta da cui le facevano uscire. Una sera Ferrari si trovò per caso di fronte a chi faceva questo lavoro: fece finta di niente. Qualche tempo dopo una spia disse ai tedeschi che Ferrari assecondava i partigiani: il colonnello delle SS una sera andò a Maranello e ordinò di portare Ferrari in caserma per accertamenti. Il colonnello proseguì per Modena e Ferrari andò via con un maggiore. Durante il viaggio, la macchina su cui era Ferrari venne bloccata da un gruppo di partigiani, che liberò Ferrari e disse al maggiore: “Riferisca al colonnello che se fa qualcosa a Ferrari si può considerare un uomo morto”. Uno di quei sette partigiani era il papà di Mauro Forghieri, Reclus, il più bravo attrezzista di tutta Modena.” (Il racconto è del già citato Romolo Tavoni)

Mauro Forghieri, ingegnere assolutamente geniale, è stato uno dei pochi uomini capaci anche di discutere, rigorosamente in dialetto modenese, con Ferrari, che infatti lo stimava moltissimo. Lo aveva chiamato alla guida tecnica giovanissimo ventiseienne, anche grazie alla fuoriuscita di collaboratori che avevano lasciato Maranello per la poco fortunata avventura ATS (in quella occasione si scatenò appunto il feroce rancore di Ferrari verso Tavoni). Dopo i risultati deludenti degli inizi anni settanta, l’ingegner Forghieri fu momentaneamente accantonato. La vettura del 1973, uno sviluppo della sua 312B in cui non fu coinvolto, fece male come mai in precedenza: 12 miseri punti in tutto, e nove nelle prime tre gare corse ancora con le B2 dell’anno precedente.

Il ‘73, come detto, fu anche l’anno della crisi petrolifera. Si parlò di riconvertire la produzione di Maranello, fu messo in dubbio il futuro stesso dell’auto sportiva, un dibattito in cui i politici italiani brillarono per preconcetto e per scarso acume, oltre a manifestare esplicitamente il loro scarso amore per Ferrari (del tutto ricambiato, comunque).

Proprio in quel momento emerse ancora una volta la forza del Drake: richiamò l’ingegner Forghieri, riportò alla guida della B3 Clay Regazzoni che aveva corso l’ultima stagione in esilio con un team inglese, e dalla BRM arrivò anche il giovane Niki Lauda, una scelta che doveva cambiare radicalmente il duello con Colin Chapman e con i “garagisti” nelle stagioni successive.

I precedenti episodi di ‘La serie nera’:

A Zandvoort hanno compiuto un omicidio

Una sacca bianca e due occhi indimenticabili

Gli anni favolosi della Formula 3

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Nel prossimo episodio di ‘La serie nera’:

Di nuovo gli anni delle gioie terribili