La serie nera (1) [Lettera 32]

di Beppe Giuliano

A Zandvoort hanno compiuto un omicidio

Ho smesso di guardare la Formula 1 giusto quarant’anni fa, tra la domenica 10 settembre 1978 dell’incidente al via del Gran Premio di Monza e il giorno dopo, l’11 settembre quando morì Ronnie Peterson, il mio pilota preferito.

Per un quinquennio non mi ero perso una corsa trasmessa dalle tivù, le poche di allora (la scelta era limitata ai due canali della Rai e alla Svizzera italiana), avevo letto come Vangelo ogni numero di Autosprint, sapevo tutto di “Bolidi e piloti” per citare il prezioso libro (di Charles Fox) da cui avevo appreso la storia della 500 miglia di Indianapolis, della 24 ore di Le Mans, della incredibile vittoria di Tazio Nuvolari con una vecchia Alfa Romeo al Nurburgring contro le invincibili Mercedes e Auto Union volute dal Führer…

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Il primo Gran Premio che vidi è quello di Gran Bretagna, sabato 14 luglio 1973. Sí, allora il giorno dello sport per gli inglesi era il sabato, con il loro tipico sacro rispetto delle tradizioni. Anche la finale di Wimbledon era il sabato, la domenica il “centre court” rimaneva rigorosamente chiuso.

Vigeva l’alternanza, gli anni pari a Brands Hatch, quelli dispari a Silverstone: si partiva in curva sul circuito originale, ricavato da un aeroporto dismesso della seconda guerra mondiale, con la classica conformazione di tre piste di decollo messe a triangolo. Circuito velocissimo, su cui si svolse la prima gara mondiale nel 1950 e la Ferrari vinse per la prima volta nel 1951.

Si partiva ancora con tre vetture in una fila due in quella successiva. In terza fila, di fianco a Cevert e Reutemann il giovane, quasi esordiente, sudafricano Jody Scheckter che quindici giorni prima aveva rischiato di vincere in Francia, messo fuori da un incidente con Fittipaldi (che stava lottando per il campionato con Jackie Stewart) per cui venne accusato ma che, a rivederlo ora, sembra più colpa di Emerson che sua.

Alla fine del primo giro Jody, quarto, perse la McLaren uscendo dalla Woodcote, una delle curve molto modificate quando anche quello inglese, come tutti i circuiti, venne sterilizzato.

“Per lo scoppio di una gomma” si scrisse a caldo, più probabilmente per un errore di guida.

Innescò una carambola che coinvolse una dozzina di vetture, tra le più spettacolari mai viste in un Gran Premio, per fortuna quasi incruenta.

L’unico ferito fu il nostro Andrea de Adamich che rimase imprigionato nei rottami per oltre mezz’ora. Il pilota triestino, che diventerà commentatore per le reti Mediaset, aveva già una rubrica settimanale su Autosprint, che quella settimana fu accompagnata da una fulminante vignetta che diceva: Questa volta vi scrivo davvero dall’interno dell’abitacolo.

Dopo uno stop di 90 minuti ripartirono 19 delle 28 vetture, e ci fu la prima vittoria di Peter Revson, il bellissimo erede di una dinastia della profumeria statunitense che non rispondeva, peraltro, al cliché del “rich guy from New York” o del “Jet‐Set playboy”.

Pochi mesi dopo si uccise provando la sua nuova auto, la nera Shadow, dopo che incredibilmente la McLaren lo aveva appiedato (sostituendolo con “Emmo” Fittipaldi che portava in dote lo sponsor principe delle sigarette).

Sul podio l’americano non sorrise, e un collega disse che viveva le corse con troppa angoscia, e se ne stava disamorando, anche perché s’era invece innamorato di Marjorie, una ventenne di Indianapolis che nel 1973 aveva vinto il titolo di “miss mondo”. Dovevano sposarsi, pare.

Quando ebbe l’incidente fatale, causato da un guasto meccanico, indossava un medaglione d’oro che lei gli aveva regalato, con inciso “If not for you …”.

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Domenica 29 luglio, sui giornali: “Ultima ondata per le vacanze. Liguria: la piena è prevista per oggi”. “Italia 61, tutto uno sfacelo” (niente di nuovo, mai, in questo Paese, alla fine). “Sta per scadere l’ultimatum per pagare il riscatto di Paul Getty”.

E nelle pagine sportive: “Per Fittipaldi quasi dramma. Il campione del mondo fuori pista in Olanda. Si è slogato un piede”.

Emerson quel giorno provò a partire ma si dovette fermare dopo un solo giro, il dolore era insopportabile. Il mondiale si allontanava, e il patron della Lotus Colin Chapman sempre più gli preferiva il giovane Ronnie Peterson, che era approdato in quella stagione sulle vetture nere e oro, livrea JPS che diverrà una delle più note della storia della Formula 1.

Proprio Peterson partiva dalle pole position, ma la corsa è ricordata per quello che successe nelle retrovie, quando il giovane Roger Williamson rimase intrappolato nella March che guidava dopo un incidente all’ottavo giro, peraltro nella stessa curva dove tre anni prima in circostanze analoghe s’era ucciso Piers Courage, e bruciò vivo tra soccorsi lenti e inadeguati, le altre auto che continuavano a passare, giro dopo giro, prima tra il fumo nerissimo dell’incendio poi tra la polvere bianca delle sostanze usate per spegnerlo dai pompieri, giunti lì dopo un tempo infinito.

Il solo David Purley aveva arrestato la sua corsa per cercare di soccorrerlo, e assisteva impotente e devastato alla morte del collega.

“A Zandvoort hanno compiuto un omicidio”, scriveva su Stampa Sera Michele Fenu, mentre il titolo era: Un pilota inglese è bruciato vivo davanti milioni di telespettatori.

La fotosequenza del disperato tentativo di David Purley di salvare Williamson vinse il World Press Photo Award.

Anche la storia di Purley è notevole: superato il trauma per avere visto il collega bruciare vivo, tornato alle corse sopravvisse (nonostante una trentina di fratture) anche all’incidente, proprio a Silverstone, con la maggiore decelerazione mai registrata, pari a un quasi irreale 180 G, tanto da finire nel ‘Guinness Book of Records’.

Per poi, infine, inabissarsi nella Manica ai comandi del biplano con cui intanto s’era dato alle esibizioni aeree.

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Lo stesso giorno un trafiletto diceva: “Il pilota Larini morto in ospedale. Si era ferito a Spa.”

La 24 ore di Spa Francorchamps del 1973 riservata alla vetture turismo è passata alla storia come una delle più tragiche corse di sempre.

Il circuito belga, ancora oggi uno dei pochi veri su cui si corre, allora era nella sua versione di 14 chilometri su strade normalmente destinate al traffico comune, il più pericoloso di tutti.

Si sfidavano, tra le altre, Ford Capri, Bmw 3.0, Alfa Romeo GTA. Velocissime e bellissime.

Già l’anno precedente tra i due piloti della vettura vincitrice c’era stato uno scambio di battute a dir poco agghiacciante quando verso l’alba Hans Stuck disse a Jochen Mass che lo stava avvicendando alla guida di “fare attenzione ai pezzi di corpo alla curva di Masta”. Mass pensò fossero parti meccaniche sul tracciato, invece si trattava proprio dei resti di un commissario di gara che era stato investito e ucciso.

Niente al confronto di quel che successe l’anno dopo, prima con un incidente multiplo che uccise due piloti, poi con il volo in mezzo al bosco dell’Alfa guidata da Massimo Larini, esperto pilota e zio del Nicola che correrà anche in Formula 1, che scomparve dopo una settimana in seguito alle ferite subite.

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Nel prossimo episodio di ‘La serie nera’:

Una sacca bianca e due occhi indimenticabili