Uno spazio minimo [ALlibri]

 A cura di Angelo Marenzana

 

 

Palermitana di nascita, Rosalia Messina è la scrittrice ospite di questa nostra domenica letteraria. L’estratto in lettura fa parte del suo romanzo Uno spazio minimo, recentemente pubblicato da Melville Edizioni (2017). Le pagine del romanzo si nutrono di sogni e silenzi, gli ingredienti che spesso accompagnano la crescita di una persona. Sono il corollario di momenti difficili perché ne Lo spazio minimo si racconta del crescere come di un’impresa ardua. Anche per una bambina nata nei formidabili anni del baby boom. Soprattutto se gli adulti non sono capaci di ascoltare. Ma la giovane protagonista, Angelica Alabiso, cresce comunque, e avanza verso il futuro con i suoi silenzi e le sue grida mute, la famiglia e gli amori, gli studi e la scoperta di sé, fino ad approdare al terzo millennio.

Vincendo e perdendo battaglie, Angelica costruisce il proprio avvenire e ricostruisce il suo passato, in un’incessante ricerca di senso. Come su un palcoscenico, alla voce della protagonista, si alternano quelle degli altri personaggi principali e, frammento dopo frammento, si compone il ritratto di una famiglia italiana che, con le peculiari connotazioni della sua infelicità, per dirla con Tolstoj, Rosalia Messina, con la sua narrazione ci aiuta a ripercorrere le grandi trasformazioni del Paese dagli anni Sessanta al 2010.

 

Uno spazio minimo

 

di Rosalia Messina

 

Oggi è venuta la ragazza di cui mi aveva parlato una collega che si occupa di tutt’altra branca del diritto.

«Fa le pulizie a casa di mia madre» ha spiegato. «Ha una situazione complicata con suo marito. È madre di un figlio piccolo che ha avuto quando era molto giovane, prima del matrimonio. Ti telefonerà.»

Era passato qualche giorno e me n’ero dimenticata. Poi, sul finire della settimana scorsa, ha chiamato in studio. Ho trovato un appunto sulla scrivania, telefonato Tania Cocuzza (avv. Serra), cioè, in codice, Tania Cocuzza nel chiedere di me ha fatto il nome della mia collega. Isabella, la segretaria, ha segnato anche un numero di cellulare.

Tania Cocuzza ha risposto dopo molti squilli, quando ero sul punto di riattaccare.

«Sono Angelica Alabiso. La signora Cocuzza?»

«Sì, sì. Sono io. Mi scusi» ha detto con una voce rauca, un po’ affannata. «Sono al lavoro.»

«Mi richiami quando ha finito, mi trova qui fino a stasera.»

Lo ha fatto solo due giorni dopo. Abbiamo fissato un appuntamento.

Magra, jeans scoloriti, giubbotto e stivaletti consumati. Capelli legati in una coda arruffata, di un biondo stopposo, con due centimetri di radici scure messe in evidenza dalla scriminatura centrale. Ha l’aria patita di chi dorme poco, mangia male e prende due autobus per andare al lavoro.

Guardava in basso e aspettava le mie domande per tirare fuori a bocconi una storia che non aveva voglia di raccontare. Man mano prendevo qualche appunto informe, parole e segni indecifrabili per chiunque tranne che per me. Poi avrei travasato tutto in una scheda ordinata sul mio computer.

Pian piano sono riuscita a sapere che suo figlio, Giuseppe, ha otto anni e porta il suo cognome. Quando è nato lei di anni ne aveva diciannove. Poi Tania ha conosciuto Sebastiano D’Angelo, oggi trentanovenne, titolare di un’officina meccanica. Dopo due anni di convivenza, quattro anni fa, lo ha sposato.

«Lo voglio lasciare» ha detto, sforzandosi di guardarmi.

Ho capito che non ci saremmo addentrate nella sua storia di dolore se non l’avessi guidata io tenendola per mano, come una bimba svogliata.

«La maltratta? Maltratta il bambino?»

L’ho vista trasalire. Ho aspettato, poi sono tornata alla carica.

«Tania, se non riesce a fidarsi di me non potrò aiutarla. Quello che mi dirà, tutto quello che mi dirà resterà tra queste pareti. Solo se lei ne sarà convinta faremo tutto ciò che è necessario perché possa separarsi. Sono decisioni che richiedono tempo, riflessione. Raccontarmi quello che non va non significa avere già stabilito che lei lascerà suo marito; potrà trovare altre soluzioni, affrontare i problemi discutendone con lui. E se già ne ha discusso, sarà anche possibile trovare un modo nuovo di dirgli cosa vuole. Perché sa, io posso aiutarla a capire quali sono i suoi diritti. E quelli di suo figlio. È per questo che sono qui. È tutto chiaro? Se ha dubbi mi faccia tutte le domande che le passano per la testa.»

In capo a due ore, nei miei appunti si è delineato un quadro di desolazione. Il denaro che guadagna Sebastiano non si sa che fine faccia; a Tania da tempo non ne dà. Munifico agli inizi della relazione, dopo il matrimonio ha contribuito sempre meno alle spese necessarie per il quotidiano. Non sono nati figli, sebbene Tania non faccia uso di anticoncezionali.

«Non ne sono arrivati» ha detto, guardando di lato.

«Ne parlate? Avete consultato un medico su questo?»

«A me non dispiace non avere altri figli» risponde.

«E a suo marito?»

«Non ne parla più. Però li voleva, quando sono passati un paio d’anni e io non restavo incinta andava dicendo che a saperlo non mi avrebbe sposata, che aveva fatto un cattivo affare, non solo mi aveva presa con un figlio non suo, per giunta con lui non ero stata buona a farne.»

«Ma non avete pensato di parlarne con un ginecologo?» ho insistito.

«Sa com’è, si dice sempre ora ci vado, ora mi faccio visitare e poi si lascia perdere. Visto che lui non ne parla più e io non ci tengo, perché devo andare dai dottori? E poi nell’ambiente nostro abbiamo altri sistemi, se un uomo vuole davvero figli e la moglie non ne ha, se li va a fare con qualche altra. Io penso che è Sebastiano che figli non ne può avere.»

«Scusi, Tania, ma suo marito ha una relazione?»

«Chi nni sacciu? Quello che le posso dire è che da più di un anno non mi tocca» ha detto dopo un silenzio.

Non la picchia abitualmente, è capitato soltanto un paio di volte, sempre durante le liti che scoppiano per ragioni economiche. Tania ha pessimi rapporti con la famiglia di Sebastiano, che non ha mai accettato l’idea della nuora con un figlio già a carico.

Alle domande sull’atteggiamento di suo marito nei confronti di Giuseppe risponde con fatica. Mi sembra molto probabile che proprio qui si annidi il nucleo più oscuro di questa vicenda. Ma sono certa che per il momento non riuscirò a trovare una breccia nella sua diffidenza e le dico che per oggi abbiamo finito, che ho bisogno di riflettere sul materiale che ho appuntato.

«Rifletta anche lei, se le venissero in mente altre cose importanti che oggi ha dimenticato di dirmi le segni su un foglio e la prossima volta proseguiamo.»

Le fisso un altro appuntamento e l’accompagno alla porta.

Mentre ci salutiamo mi guarda e sembra sul punto di dire qualcosa. Poi china la testa e se ne va.

 

 

Angelica, ottobre 2004

 

Da alcuni giorni Tania e suo figlio si trovano in una casa-famiglia.

È stato un percorso accidentato, quello che ci ha condotti qui. È stato necessario aiutare Tania a prendere coscienza di tutti gli angoli oscuri della sua storia. E non è stato facile, né per lei né per me. Ho avuto momenti di rabbia, in cui avrei voluto urlare contro di lei e insultarla per la sua vigliaccheria. E ci sono stati momenti di stanchezza, in cui sono stata sul punto di arrendermi.

La ricostruzione di un quadro chiaro avanzava un millimetro dopo l’altro. Troppo lentamente, per l’urgenza che avvertivo nella situazione del piccolo Giuseppe. Dietro le vicende della disgregazione familiare – materia cui sono abituata – intuivo qualcosa di oscuro che Tania nascondeva anche a se stessa. Come un segugio, avevo fiutato un risvolto indicibile fin dalla prima volta che avevo nominato suo figlio e l’avevo vista trasalire.

Le avevo strappato ammissioni a mezza voce, gli occhi sempre bassi, in fuga dalla visione che volevo additarle.

No, stava bene il bambino. No, lei non aveva notato niente. Be’, sì, ora che ci pensava, sì, da un po’ parlava poco. No, oltre alla scuola Giuseppe non faceva altre attività. Fino a sei mesi prima, anzi, andava alla scuola di calcio, si allenava tre volte la settimana. Poi aveva detto che non ci voleva andare più. Chi lo accompagnava? E chi lo doveva accompagnare ’u picciriddu, Sebastiano, e meno male che almeno in quello l’aiutava. Lei a lavorare andava, e macchina non ne aveva. Si muoveva con l’autobus e tornava la sera. Pulizie a ore in tante case diverse, anche in due uffici. Sebastiano pure lavorava, certo. Però poteva lasciare in officina i ragazzi, i lavoranti, e andarsene un paio d’ore. Il padrone lui era, in officina. E la macchina l’aveva, lui.

«E come l’ha presa, suo marito? Doveva tenerci al fatto che Giuseppe si allenasse, per andare tre volte alla settimana ad accompagnarlo. Sono tante tre volte, lei stessa dice che non è suo figlio, lo ripete spesso. Però al calcio lo accompagnava. Allora ci tiene a questo bambino. Oppure era il calcio che gli interessava?»

«Mi sta facendo confondere, avvocato. Scusi, cosa mi sta chiedendo? Chi voli sapiri? Come l’ha presa Sebastiano questa cosa del calcio? E come la doveva prendere? Giuseppe non è suo figlio. Gli ha detto che facesse come voleva.»

«Cioè si è arrabbiato?»

«Arrabbiato… No, proprio arrabbiato no. Non era d’accordo, ecco. Peccato era, smettere. Il mister aveva detto che era bravo, Giuseppe. Poteva diventare calciatore professionista. Col tempo.»

«E lei non ha chiesto a suo figlio perché non voleva più andare al calcio?»

Sembrava sul punto di esplodere, di alzarsi e scappare. Ritenni prudente cambiare discorso, non esasperarla.

Mentre faticosamente mettevo ordine in quel puzzle di omissioni e parole scappate di bocca a Tania rivedevo mia madre in cucina, a Caltanissetta. Quei fotogrammi indelebili in mezzo al buio che nella mia memoria di quegli anni avvolge tante cose. E mi sforzavo di non diventare troppo incalzante, di mantenere un tono calmo e suadente. Ma la cosa più difficile, quella nella quale mi sono dovuta impegnare allo spasimo, è stata non giudicarla. Per farlo, non dovevo mai perdere di vista Giuseppe. Era fondamentale che evitassi di vedere me al posto di quel bambino e che mi alleassi con Tania, che la guidassi fino a portarla a stare dalla parte del figlio. Per riuscire a controllare la mia rabbia dovevo dimenticare che stare dalla parte del figlio non le veniva naturale, che istintivamente voleva distogliere lo sguardo. Ho temuto spesso di non farcela.

«No, non tratta male il bambino» rispondeva alle mie reiterate domande sui rapporti tra suo marito e suo figlio.

«Nemmeno bene, però?»

Mi guardava come un cane che si aspetta una bastonata. Incerta se fuggire o mordere. Si agitava sulla sedia, tirava fuori dalle tasche le mani sciupate, toccava un oggetto a caso sulla scrivania.

«Non è suo figlio.»

«Certo. Ma questo suo marito lo sapeva fin dall’inizio della vostra relazione, no? Ha mai detto, che so, che avrebbe preferito che non vivesse con voi? Ha proposto soluzioni come affidarlo a qualcun altro, per esempio ad altri parenti?»

«No.»

«E allora come influisce sul rapporto di suo marito con il bambino il fatto di non esserne il padre?»

Taceva. Chinava ancor più del solito la testa. Cercavo di spiegarmi con parole più semplici e più dirette.

«Tania, Giuseppe si lamenta di Sebastiano?»

«No.»

Non demordevo. Toccavo altri argomenti, quelli che a lei stavano a cuore. Il denaro, soprattutto.

«Quanto possiamo chiedere?» era il suo ritornello.

Le davo il tempo di rilassarsi, di abbassare la guardia. Allora tornavo a parlare di Giuseppe, ma partendo da lontano rispetto al mio obiettivo. Poi ricominciavo a scandagliare il territorio in cui Tania sembrava non volersi addentrare.