La maledizione della croce sulle labbra [ALlibri]

a cura di Angelo Marenzana

 

 

Da un’idea di Francesco Bogliari, editore di Ink, e di Danilo Arona e Edoardo Rosati, chiamati a dirigerla, nasce Medical Noir, la nuova collana che unisce due generi, il medical e il noir appunto. Di origine tipicamente anglosassone, basti pensare ai best sellers firmati Robin Cook, Richard Preston o Patricia Cornwell, il medical è un genere che incomincia a vantare esempi illustri anche nel nostro Paese. Si tratta di un filone letterario tutto figlio dei nostri tempi anche se il rapporto medicina/ricerca/letteratura ha permesso di dare alle stampe alcuni dei capolavori dell’ottocento. Del resto, cos’è il “Frankenstein” di Mary Shelley se non un pionieristico medical noir?

L’evoluzione della scienza medica odierna  con le sue infinite sfaccettature sempre più proiettate in un futuro tecnologico,  ha prodotto oltre alle molteplici speranze sulla qualità della vita, anche dubbi e paure collegate al timore che la medicina stessa possa sfuggire al controllo etico e morale da parte dell’uomo per finire strumento di supremazia di menti prive di scrupoli.

E qui, la narrativa ci va a nozze. Quindi, come recita il comunicato stampa, Medical Noir proporrà storie di autori italiani “costruite sui temi, sugli intrighi e sulle location della Medicina”: dalla detection moderna al thriller storico, dall’apocalisse prossima ventura (a base di pandemie e contagi planetari) alla fantascienza, fino all’horror goticheggiante:

Il primo titolo in uscita è La maledizione della croce sulle labbra, scritto a quattro mani dagli stessi Danilo Arona e Edoardo Rosati, e di cui la rubrica domenicale di ALlibri offre un estratto in lettura.

Nel romanzo si racconta di  un antico mistero che pulsa nelle viscere di una lontana isola dei Caraibi. Un mistero che finisce per assumere le fattezze di una strana epidemia. Il dottor Alejandro Vegas, un infettivologo locale, cerca di lanciare l’allarme ma viene inspiegabilmente ostacolato. E la malattia si diffonde. Mentre un manipolo di untori fondamentalisti sono pronti a spargere nel mondo la feroce pestilenza a costo della vita. Lo scenario si complica quando l’infezione sbarca in Italia. A Milano. La metropoli viene scossa da una serie di omicidi e suicidi con i corpi delle vittime accomunati da un inquietante herpes che taglia le labbra come una croce blasfema. Due infettivologi ospedalieri incominciano a indagare, ma ciò che sembra un bizzarro focolaio epidemico si trasformerà in un autentico incubo.

Insomma, una lettura da brivido gelato consigliata in una bollente serata estiva.

 

La maledizione della croce sulle labbra

 

di Danilo Arona  e Edoardo Rosati

 

Un rauco ruggito, pressoché disumano, distolse Alejandro dai propri pensieri e Rachel dall’eccitante scoperta del vecchio cuore della città. Ma non si trattava di qualche cane rabbioso.

Un uomo era caduto a terra, qualche metro davanti a loro. Attorno a lui, due o tre energumeni, dalla pelle scura, senz’altro caraibici, lo percuotevano con violenza, servendosi di oggetti che lì per lì Alejandro non fu in grado d’identificare ma che producevano, a ogni colpo, un inquietante  rumore liquido. L’uomo era un bianco, un tedesco a giudicare dalle urla concitate che provenivano dalla sua bocca.

Sciaf. E lui gridava, mentre la ressa e il parapiglia celavano quasi del tutto la scena agli occhi di Alejandro e di Rachel.

Sciaf. Unico segnale sonoro, a parte le grida della vittima, nell’ammutolimento generale della folla e nel silenzio incomprensibile dei tre assalitori.

Dopo alcuni interminabili secondi, altre urla. Gli assalitori, senza neppure guardarsi tra di loro, fuggirono come a un invisibile segnale convenuto. Alejandro e Rachel si fecero allora strada fra la gente per prestare soccorso al malcapitato. In quei cinque anni di residenza a Guana, mai Alejandro aveva udito parlare di aggressioni ai turisti. L’uomo, aiutato da mani volenterose quanto tardive, si rialzò lanciando giustificati improperi nella sua lingua madre. Non sanguinava né appariva traumatizzato in modo particolare. Era soltanto bagnato fradicio: lo avevano frustato ripetutamente con stracci imbevuti di… qualcosa.

Rachel si staccò dalla mano del suo uomo e si avvicinò al tizio, parlandogli in tedesco. Alejandro avvertì un acido sentore, probabilmente l’odore del liquido con cui i cenci erano stati impregnati. Sembrava urina. Urina dannatamente puzzolente.

«Non mi pare d’aver letto nel tuo curriculum che parlassi il tedesco», le disse, quando il turista si allontanò di corsa in direzione della litoranea, protestando in modo concitato con tutti quelli che incontrava. «Che ti ha detto?»

«Proprio nulla. È un turista, arrivato l’altro ieri, fa parte di una crociera diretta alle Grenadine», spiegò Rachel, che si stava fissando una mano. Era umidiccia: aveva inavvertitamente toccato l’uomo e la sua camicia inzuppata. «Non ha capito che gli stesse succedendo. Non conosce nessuno a Corralejo. Comunque so anche parlare il neozelandese, dottor Vegas. E devo sciacquarmi le mani al più presto. Raggiungiamo il nostro bar?»

L’assembramento di persone si diradò. E quando lo scenario dinanzi tornò a essere visibile, gli occhi di Alejandro vennero calamitati dalla parete di una casetta intonacata di recente. Proprio lì, quasi di fronte al luogo dell’aggressione, una nuova e più articolata versione del misterioso graffito, con cui qualcuno stava, da un paio di giorni, ornando non proprio graziosamente le porte e i muri di Corralejo.

L’ellisse, in questo caso, era senza dubbio una bocca tracciata con spray nero. Una croce giallastra la tagliava nel mezzo. E il piccolo ruscello rossastro che si dipartiva dall’intersezione della croce con le labbra pareva proprio… sangue. Sotto, la scritta, sempre vermiglia:

Exù vive.

«Alex?»

«Sì, scusami. Tentavo di capirci qualcosa».

«È stata una rissa, che c’è da capire? Te l’ho detto che qui bevete pesante».

Invertirono la marcia. Dopo una ventina di minuti, sgusciarono dalla città vecchia e si diressero verso la baracca in legno verniciato che costituiva il modesto ma accogliente bar in cui avevano cenato la sera prima. Presero lo stesso tavolo. Mentre Rachel raggiungeva una pompa d’acqua dolce vicino alla spiaggia, Alejandro cercò con gli occhi la sua jeep.

Un tuffo al cuore. Di rabbia e d’incredulità.

La jeep, una vecchia Chrysler che gli serviva soprattutto per recarsi all’interno dell’isola, non si vedeva più. Sparita. Rubata, senza possibilità di errore. Più incredibile che increscioso, visto lo scarso valore commerciale cui la macchina poteva ambire in quel di Guana.

«Che succede, Alex?», chiese lei con voce carezzevole, nel sedersi. L’espressione rabbuiata del suo “capo” non le era sfuggita.

«È… è pazzesca questa cosa!», gesticolando sconsolato. «Ci hanno rubato la jeep!»

«Stai scherzando?», replicò lei guardandosi attorno. «Rubano le macchine in questo posto?»

«No», fu la sua risposta. «Qui scompaiono soltanto i fuoribordo di notte. Quelli più belli. Ma non li tengono, perché non sanno che farsene. E nemmeno li rivendono: mancanza di acquirenti. Il mattino dopo qualcuno si presenta al legittimo proprietario e pattuisce il prezzo del riscatto. A quale imbecille potrebbe piacere la mia macchina?»

«Aspettami qui un attimo, Alex», fece Rachel, alzandosi.

Con stupore Alejandro la vide dirigersi con sicurezza verso la curva, oltre la quale si accedeva alla Punta di Jandia e, molto più in là, alla Costa de Oro. La direzione dalla quale erano giunti. Per qualche secondo non la vide più, confusa tra i passanti che cominciavano ad affollare la nuova notte di Corralejo. Per un istante avvertì il timore di perderla, rubata proprio come la sua vecchia carretta, alla quale si sentiva più che affezionato. Una manciata di secondi e lei riapparve festante, divorando con una corsetta leggera gli ultimi metri che la separavano dal bar.

«Sciocco. L’hai posteggiata prima della curva. Mi sembrava che tu non l’avessi piazzata proprio qui davanti!»

Alejandro s’incupì. Il ritrovamento della sua amata jeep sembrava addirittura averlo reso ancor più di cattivo umore, il che incuriosì e rattristò Rachel. Per fortuna il ragazzo del bar si avvicinò per le ordinazioni.

«Un margarita. Uno solo, Alex. Te lo giuro».

«Okay, due», rispose lui con malagrazia. «Rachel, ti garantisco che non sono ancora rimbambito. Ho lasciato la jeep a cinque, sei metri da qui, nella direzione opposta a quella che hai appena percorso. Hai visto per caso qualche filo penzolare sotto il volante?»

«Non ci ho badato».

«Vado a vedere. Se arrivano i margarita, non berti pure il mio».

Si alzò a sua volta e la baciò. Poco dopo, Alejandro stava constatando che i fili erano staccati. Qualcuno ne aveva approfittato per chissà quale assurdo giro turistico. Ma, soprattutto, lo stesso qualcuno aveva tracciato su una portiera ancora quel maledetto, sconcertante simbolo. In un’ennesima variante: stavolta lo spray era bianco. C’era la bocca e adesso risaltavano pure un naso rudimentale e gli occhi. L’immancabile croce a sigillare le labbra. Con l’immancabile scritta.

Exù vive

E la risposta fisiologica del dottor Alejandro Vegas fu un lungo brivido di genuina paura.