Traiano [ALlibri]

a cura di Angelo Marenzana

 

 

 

Ospite di ALlibri di oggi, l’alessandrino Gianluca D’Aquino classe 1978, autore di romanzi, sceneggiature e racconti, alcuni dei quali apparsi nei Gialli Mondadori e nelle antologie e collane Delos Books. Lo si può trovare in libreria con Pàrtagas (Eden, 2016), romanzo epico sull’islamizzazione del mondo e con l’ultima sua fatica Traianoil sogno immortale di Roma, scritto in occasione nel 1900° anniversario della morte dell’optimus princeps, che ancora oggi, dopo quasi duemila anni, rimane una delle figure più splendenti nella storia di Roma.

Quando nel 206 a.C., nel corso della Seconda guerra punica, Publio Cornelio Scipione detto l’Africano fondò Italĭca sulla destra del fiume Baetis per insediarvi i soldati romani feriti nella battaglia di Ilipa, non avrebbe immaginato che uno dei discendenti di quegli uomini sarebbe un giorno divenuto uno dei più grandi imperatori della storia di Roma, colui che avrebbe esteso i confini dell’impero là dove nessuno sarebbe più riuscito. Il giovane Marco Ulpio iniziò la sua rincorsa sulla storia proprio fra le polverose strade di quella città, sulle rive di un placido fiume in cui amava specchiarsi e che anni più tardi avrebbe ritrovato nel fiume dell’Urbe, il Tiberis, in cui si riverberò adulto: dapprima senatore, poi generale, quindi optimus princeps, di Roma e dell’impero.

Nonostante l’inesorabile incedere del tempo e gli onori ottenuti, l’uomo Traiano non aveva perduto l’ardimento e la capacità di sognare del piccolo Marco Ulpio da Italĭca. E dopo avere attraversato i grandi fiumi della Germania e della Pannonia, il Rhenus e il Danubius, e i maestosi fiumi desertici del regno partico, il Tigris e l’Euphrates, non trovò appagamento ma nuova brama di eternità. Ormai giunto sulle rive del maris Erythrei sognò di emulare e finanche superare i limiti imposti alla storia e dalla storia ad Alessandro il Macedone, il Grande. Nel frattempo aveva fatto di Roma la capitale del mondo e del suo principato il migliore che il popolo potesse desiderare. La storia però è in mano agli dei, e solo a loro l’uomo può chiedere di ottenere l’eternità.

 

Traiano

 

di Gianluca D’Aquino

 

Estratto da pag. 210

 

Il giorno della battaglia.

L’accampamento prese vita all’alba, al suono delle buccine che chiamarono la sveglia e la successiva adunata, scandendo ogni passaggio delle operazioni.

Traiano ricevette gli ufficiali nella tenda di comando poi uscì a incontrare le truppe già schierate e inquadrate per la rassegna.

Il sole del mattino era tiepido, ma capace di scaldare il cuore di per sé già infiammato che pulsava nel petto del comandante. Nei suoi occhi si potevano vedere i campi ingrassati del sangue dei combattenti, il clangore delle armi, i fumi del fuoco e i vessilli di Roma innalzati sulle resistenze del nemico.

Sotto le loriche dei legionari, al contrario, brividi freddi correvano incontrollati. Timori, premonizioni di un fato avverso, il ricorrente Ibis redibis non morieris in bello, ambiguo responso della sibilla che profetizza ritorno e morte al tempo stesso, per la sola interposizione di una pausa, una virgola, in un punto piuttosto che in un altro del vaticinio. I cuori dei soldati palpitavano di trepidante attesa, della paura della morte e del desiderio di essere altrove, al caldo dell’abbraccio delle proprie madri o a quello conturbante e lascivo delle cosce delle proprie donne. Gli occhi, fissi nel nulla davanti a loro, sull’elmo del legionario schierato nella fila precedente, erano specchi di anime inquiete, non votate alla guerra ma alla sopravvivenza.

Perché Roma reclamava terre che non gli appartenevano e loro erano stati spediti laggiù, a migliaia di leghe di distanza dalle proprie case, per combattere in nome di un ideale, contro altri uomini che avevano la sola colpa di difendere le proprie terre e i propri affetti. Dall’invasore.

Fu la voce di Marco Ulpio Traiano, ispanico della Baetica, nativo di Italĭca e figlio dell’omonimo padre, militare e senatore di Roma, a rompere il rumoroso silenzio dei loro pensieri più cupi.

– Voi, legionari di Roma, fratelli – dichiarò poggiandosi la mano sul cuore, cozzando sulla lorica musculata – voi, cittadini della capitale del mondo conosciuto… voi oggi siete qui perché l’imperatore vi ha chiesto di servire Roma con onore e sacrificio, con l’unico scopo di pacificare l’impero e garantire ai vostri figli un futuro di pace e prosperità, lontani dalle paure della guerra e delle invasioni di popoli rozzi e spietati che vogliono oscurare lo splendore e la gloria di Roma.

Una brezza leggera spazzò la polvere fra Traiano e la prima linea dei legionari.

Gli ufficiali spinsero in alto lo sguardo, come a cercare conforto e approvazione nelle divinità, appoggiate sul davanzale ad ascoltare le parole del comandante.

– I nostri avversari ritengono di essere dalla parte della ragione e ci considerano oppressori. Pensano che la nostra presenza qui sia un errore e un’imposizione. Forse hanno ragione – dichiarò enfatizzando l’affermazione. – Non posso io dire chi abbia torto o ragione. Io sono un servitore di Roma e Roma mi ordina di chiudere la contesa con questi barbari.

I legionari batterono le aste contro gli scudi, in un fragore assordante che cessò solo quando Traiano sollevò la mano.

– Oggi non incontrerete nulla che non abbiate già conosciuto, ma voglio dirvi una cosa che forse nessuno vi ha mai detto. C’è una profonda differenza fra noi e loro, una differenza apparentemente invisibile ma di intenso significato, che può arrivare anche a decidere le sorti di una battaglia. Voi, amici miei, siete soldati. Siete uomini pagati per servire il vostro imperatore, siete parte di una struttura complessa fatta di altri uomini, siete sottoposti al senso del dovere e della disciplina, e non avete interessi personali che ricadono nel vostro operato. Non in senso stretto. Voi siete il risultato di un’evoluzione sociale illuminata dai valori di una storia antica che vi spinge a mettervi al servizio di un ideale per il conseguimento di un bene comune.

Il silenzio che si era creato profumava dell’aroma della battaglia imminente, dell’afrore del sudore tensivo.

– I nostri avversari, al contrario, sono guerrieri. Sono uomini figli di un retaggio fondato sull’onore. Questi barbari non sono pagati per combattere, non come lo intendiamo in una società evoluta e civile. Questi uomini si battono per natura, da sempre e per sempre. Vivono e combattono per il proprio onore personale, che devono conquistare e preservare, che ha un prezzo attraverso cui ottenerlo e conservarlo: la guerra. Che sia una schermaglia di tutti i giorni o la grande battaglia campale contro un avversario imponente e minaccioso. Come noi siamo. Un guerriero difende il proprio onore, l’onore della propria famiglia e l’onore del proprio clan. E muore per l’onore.

Il mantello di Traiano si mosse fluido al vento.

– Non scordatelo mai. Gli uomini che incontrerete a breve, e che molti di voi hanno già avuto occasione di combattere, si batteranno fino alla morte, per il proprio onore e per la propria famiglia.

Negli occhi dei legionari si fece largo un certo sgomento.

– Siate degni di Roma e più onorevoli dei vostri avversarsi – sentenziò. – Vis et Honor!

– Forza e onore! – risposero le legioni, all’unisono, battendo le aste sugli scudi e i piedi cinti dalle calighe chiodate sul terreno. – Forza e onore!

La terra sembrò tremare, i cuori vibrarono, i brividi corsero sulla pelle, freddi e penetranti come scariche di un fulmine.

Marco Ulpio Traiano, in un giorno che sentiva come tra i più importanti della propria vita, montò a cavallo e tirò le redini facendo ruotare la bestia sulle zampe posteriori in un torcersi di muscoli allo spasimo.

Si allontanò quindi dalle truppe per osservare in lontananza il campo di battaglia che in poche ore avrebbe raggiunto: una luce surreale ne allagava l’orizzonte.