Il volo delle aquile di cristallo [ALlibri]

a cura di Angelo Marenzana

 

 

Spero che il direttore responsabile di CorriereAl, l’amico Ettore Grassano, non abbia a risentirsi se, per la rubrica domenica di ALlibri, compare la firma di Angelo Marenzana non come il solito curatore ma in veste di autore. Un uso dell’informazione a scopi puramente personali. Poco etico e concordo. Ma l’uscita del mio nuovo ebook, Il volo delle aquile di cristallo (pubblicato da Todaro Editore nella collana I Gechi) mi inorgoglisce e mi spinge a non rispettare le regole.

Si tratta di un racconto lungo (scritto tenendo per mano un ormai sopito ribellismo) che, come sottolinea Danilo Arona nella sua graditissima e dotta prefazione, ha le caratteristiche per essere considerato un horror post-industriale.

La storia prende spunto dal mito di Carcosa, l’oscura città perduta narrata da Ambrose Bierce nel 1886. Protagonisti, una miniera per l’estrazione di minerali da immettere nel processo di fusione, e …i dannati della terra, i lavoratori, e lo spietato padrone di un’infernale fonderia la cui descrizione colpisce e fa male come mai, dove si fa strada una mostruosa creatura che nasce dalle distorsioni e dalle lordure di un lavoro concepito come schiavitù e macchina di morte.

Un horror post-industriale per raccontare una pagina di storia e di sindacalismo ai suoi albori. E per sapere come va a finire la vicenda narrata, basta acquistare l’ebook sui tanti store on line a soli 2.99

Buona lettura con il primo capitolo.

 

 

Il volo delle aquile di cristallo

 

di Angelo Marenzana

 

Niente stelle nelle notti di Torrealta. Solo una cornice di nere volute di fumo a segnare il perimetro della Valle del Foro. Nubi dense, vomitate dalla ciminiera della fonderia per ventiquattr’ore al giorno senza un attimo di sosta. L’insieme creava una cupola caliginosa impenetrabile che incombeva sul villaggio di minatori come una maledizione divina. Così, quando un riflesso argenteo guizzò tra i contorni dei tetti, per Donato Blanco si trattò di una vera e propria sorpresa.

Lo scintillio fu talmente rapido da sembrargli un’illusione.

Il ragazzo si fermò nel vicolo tra due lotti di baracche basse, umide e male in arnese. Pollai puzzolenti e malsani destinati agli esseri umani. Posti che Donato si rifiutava di credere potessero accogliere una famiglia.

Si guardò attorno, e non notò nulla di diverso dall’ormai consueto profilo di quelle sagome cresciute nella miseria.

“Un’allucinazione” pensò. Era cosciente di non essere troppo lucido per aver alzato un po’ troppo il gomito alla fine della riunione sindacale. Aveva bevuto anche per dimenticare la poca sintonia con gli altri lavoratori. Si deprimeva ogni volta che veniva a mancare la giusta intesa con i compagni. Era convinto che l’unità, la solidarietà e la complicità nel pensiero quanto nell’azione rappresentassero lo strumento più autentico per affrontare l’arroganza del padrone della ferriera, il conte Carlo Antonio Riva di Bassavilla, proprietario della società autorizzata allo sfruttamento dell’intera area mineraria della Valle. I suoi interessi avevano prodotto un mercato di morte, padri di famiglia schiantati di fatica sul lavoro o schiacciati dal movimento dei macchinari, donne decedute per l’insorgere di gravi malattie polmonari, bimbi nati deformi. Il nodo cruciale tra Donato Blanco e altri cavatori era tutto nei sistemi da mettere in atto per bloccare la produzione di quella maledetta fonderia. Si faceva sempre più urgente una protesta per il riconoscimento dei loro diritti come lavoratori ed esseri umani, e, quando non si raggiungeva il giusto accordo, per lui era un sintomo di debolezza. Viveva il fatto come una sconfitta a vantaggio del conte.

Il guizzo riprese vita. Una nuova scia luminescente. E subito dopo un lungo, stridulo ululato. Un brivido freddo scivolò sulla pelle di Donato mentre la luce gli si faceva incontro. Fin quando una traccia tonda si avvitò attorno a lui e Donato venne catturato da una voragine abbacinante pronta a risucchiarlo tra le sue spire.

Per chiunque con la testa sul collo, la cosa più di buon senso da fare, sarebbe stata cambiare direzione e darsela a gambe il prima possibile.

Chiunque, ma non Donato Blanco, stravolto da una miscela di stanchezza, arroganza giovanile, ebbro di vino e forte della rabbia covata a lavorare in fonderia dall’età di undici anni. Due erano le sole certezze della sua esistenza, la prima piegare la schiena per poter trovare un piatto di minestra a cena. La seconda, alzare la cresta per sentirsi vivo.

Il sangue gli ribolliva ancora per l’esito della riunione e forse, la stranezza che gli volteggiava sulla testa, rappresentava l’occasione buona per scaricare tutta la rabbia accumulata.

Contrasse i muscoli. Si mise in allerta quando vide una figura poggiarsi a terra e riflettersi nel buio. Si spostò di lato e, in un lieve sussulto dell’essere sconosciuto, gli sembrò di scorgere il volto di una donna giovane su un corpo basso ma dal petto spropositato. Le gambe e le braccia brillavano di una luce argentea, innaturale. L’immagine gli evocò il ricordo di un rapace. Ma con una testa di donna. Come una figura mitologica.

«Chi sei?» urlò. Mentre un cupo ululato gli faceva da controcanto. La voce gli uscì stridula e tremante. Il ragazzo fu assalito dal timore improvviso di dover fare i conti con l’ignoto, con un fenomeno ben più spaventoso della pur disumana realtà cui lo costringeva il conte di Bassavilla. Per la sorpresa abbassò la guardia. La torbida curiosità giovanile lo spinse a fare un passo in avanti per capire da che razza di mondo arrivasse, se non addirittura sapere quale inferno l’avesse partorita.

Ma non successe nulla di tutto questo. Non riuscì a proferire parola e nemmeno a schivare un gesto fulmineo di quell’insolito volatile. L’entità misteriosa spalancò la bocca. Fece un verso stridulo. Mostrò i denti come un cane rabbioso, poi iniziò a batterli insieme, la parte superiore contro quella inferiore. Produsse un tintinnare cristallino, quello che solo il vetro è in grado di produrre. Alla fine si divincolò dalla propria posizione in maniera talmente rapida da tracciare un nuovo lampo nell’oscurità prima di finire addosso a Donato. Artigliò il giovane al petto, lo trasse a sé come un trofeo, poi, con bocca avida, gli conficcò i denti in gola fino a strappargli via le carni.

A Donato Blanco non rimase altro che osservare il proprio respiro condensarsi nell’aria fredda, mentre l’oscurità incominciava a farsi impenetrabile. Stramazzò a terra senza nemmeno un gemito e senza poter sentire un ultimo, inquietante latrato levar