E’ difficile comprendere come sia possibile, a distanza di tanti anni, dover riportare in auge la mitologia della forza nelle relazioni fra popoli confinanti in una nazione, come la nostra, che dalla storia avrebbe dovuto imparare una lezione definitiva dopo due diverse esperienze belliche vissute nel giro di mezzo secolo, di segno opposto come conclusione (la vittoria del 1918 e la disfatta del 1943-45), ma che entrambe hanno lasciato pesanti eredità in termini di civile convivenza, di crescita e sviluppo economico e tanto altro.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, memori di ciò che ci aveva lasciato la prima grande guerra (debiti, lutti nelle famiglie, miseria diffusa, eccetera) avremmo dovuto aver imparato a distinguere la realtà dalla propaganda, ed invece ci resta nella memoria l’immagine delle folle osannanti all’annuncio dal fatidico balcone della dichiarazione di guerra. Sembrava l’immagine di una nazione bellicosa, ansiosa di misurarsi con le armi, protesa alla conquista di confini sempre più lontani e ignoti.
Purtroppo il potere dominante aveva agitato e corrotto le coscienze al punto di cambiare anche il modo di ragionare: tutto era esageratamente eroico, grande, imperituro e smisurato come doveva essere il destino della nostra nazione.
Ma a distanza di pochissimo tempo da quella folle dichiarazione di guerra, presentata agli ambasciatori di Francia e d’Inghilterra per la gioia e l’orgoglio del popolo radunato sotto quel balcone, davanti al porto di Genova si presentarono le navi inglesi ed iniziarono i bombardamenti e la distruzione dell’apparato industriale di quella città, senza adeguata reazione di quella che doveva essere per numero di navi, di armamenti e potenza di fuoco la seconda potenza marittima europea.
“Supermarina” era il termine ampolloso con il quale veniva chiamato il Ministero della Marina da guerra fascista, ma evidentemente al momento dell’attacco inglese chi doveva difendere Genova, cioè i comandanti dei nostri incrociatori e delle nostre corazzate erano impegnati in altri compiti meno impegnativi, presso i circoli ufficiali di Genova o di La Spezia.
Poi ad un certo punto abbiamo incominciato ad agitare la minaccia di mettere in campo ben otto milioni di baionette e ci siamo fissati di spezzare le reni ai greci, i quali, poveretti, non so cosa ci avessero fatto per meritare tale trattamento. Anche lì abbiamo poi capito che era solo propaganda, poiché dalla Grecia ne siamo usciti con fatica e con le reni malconce. Di lì in avanti è stato poi solo un susseguirsi di delusioni, fino all’estate del 1943, quando anziché inchiodare sul bagnasciuga gli invasori americani, come avevamo orgogliosamente annunciato, siamo stati puniti pesantemente annullando definitivamente ogni nostra ambizione di dominio.
Qualche tempo fa mi sono trovato fra le mani un biglietto scritto a mano da un nostro compaesano che aveva conosciuto le vicende belliche del fronte occidentale, con scritta la patetica filastrocca che risuonava al tempo in cui, imbracciato il moschetto e innestata la baionetta, ci apprestavamo ad aggredire la Francia, dopo la famosa dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940 e l’avvenuto collasso dell’armata francese per opera della Wehrmacht: (ovviamente gli autori erano certamente di parte avversa al regime).
“Con tre colpi di pistola prenderem Nizza e Savoja,
Imbracciando la mitraglia giungerem fino a Marsiglia,
poi a colpi di cannone prenderemo anche Tolone
ed infine, per levarci il mal di pancia, prenderem tutta la Francia.” A noi!
(Forse qualche insegnamento potremmo trarlo dalla storia passata, ma non mi faccio illusioni)
Luigi Timo – Castelceriolo