Paradisi imperfetti [ALlibri]

a cura di Angelo Marenzana

 

 

Già l’incipit del racconto presentato questa settimana su ALlibri un po’ la dice lunga sul punto di vista dell’autrice riguardo alla troppo spesso abusata immagine nobile, elevata e un po’ favolistica con cui si tende a pennellare la montagna. Paola Caretti (giornalista e insegnante in un istituto professionale di Domodossola) è di certo una buona conoscitrice delle sette Valli che danno vita al mondo alpino dell’Ossola. Ha esordito nel mondo della narrativa nel 2000 con il romanzo Mi faccio via io (Mobydick Editore). In seguito, la sua dimestichezza in campo letterario le ha fatto firmare volumi come Antiche Ricette Ossolane (2010) o il più recente Racconti in diligenza in cui l’autrice raccoglie brani selezionati e tradotti da libri e riviste dell’Ottocento, tutte storie di viaggiatori inglesi, francesi e americani sulla via del Sempione che ci permettono di osservare dal finestrino delle loro carrozze un passato fantasticamente vivo.

 

 

Paradisi imperfetti

 

di Paola Caretti

 

Se sei donna e nasci in montagna vivi una storia d’amore malata. Una storia che comincia in paradiso, tra vette che toccano il blu, e poi sprofonda lentamente. A volte è una storia travolgente e piena di passione. A volte è noia, giornate buie e piovose sotto un triangolo di cielo troppo piccolo. Se nasci in montagna è come indossare un paio di scarpe strette. Eleganti, femminili, ma fastidiosamente strette. O le levi o ti ci abitui.

La montagna è la periferia della periferia della periferia della città. Chi non ci vive, la idealizza, immagina romantiche solitudini e silenzi, aria fine e immacolata, passeggiate sulla nuda roccia, lo spettacolo esagerato della natura. Invece una donna che nasce in montagna lo sa. Quelle sono tutte balle.

L’amore malato ti àncora al terreno. Ci vuole una valanga di neve per estirpare le radici infilate profonde tra le pietre. Se la valanga non ti tocca, sei destinata a restare immobile con i rami protesi verso le nuvole.

“Sai che fortuna crescere in questi luoghi meravigliosi”, dice Giò, l’amico milanese spossato dal caos e dal puzzo dei gas di scarico. “Io qui ci vivrei in eterno”. Me lo dice tutte le volte che, a ferragosto, indossa gli scarponi, s’infila nel traffico e mi viene a trovare. Poi si siede tutto il santo giorno a mangiare costine di maiale e salamini di cervo alla festa campestre e, a sera, si mette in coda in autostrada e se ne ritorna nel rumore metropolitano.

“Hai ragione”, gli rispondo. “Sono davvero fortunata”.

Non è una menzogna. Negli anni il rancore verso queste balze scoscese si è attenuato. L’amore malato, senza possibilità di divorzio, ha lasciato spazio all’abitudine e si è ritagliato un senso di tenerezza che mai avrei immaginato. Insomma, mi sono abituata a indossare quelle scarpe strette. Fanno male, deformano il piede e causano dolorose vesciche, alte e gonfie sull’alluce come bolle di sapone, eppure sono il prezzo da pagare per la conquistata solitudine.  In passato pensavo quanto fosse stupido vivere come una trota surgelata dimenticata in un freezer, circondata come sono da vette incappucciate di ghiacci e di bianco. Lo sguardo si blocca, non può andare oltre. Il sole sgomita per varcare il muro e la sua pena è la mia, alla ricerca del calore dei suoi raggi. Oggi invece ho imparato a credere che la cortina sia schierata a corona per proteggermi. Prima erano una barriera, un impedimento al desiderio di libertà e ora sono le sponde del nido.

Nascere in montagna e andarci a vivere sono due cose diverse. Se vi nasci, sai bene che lei è spietata. Superba, bastarda e spietata. Prende quello che vuole, quando vuole.

“Sai che fortuna vivere in questi luoghi meravigliosi. Io qui ci vivrei in eterno”. Mescolato alle parole dell’amico milanese, nella testa rimbalza il rumore dell’elisoccorso. Anche ieri ho visto l’elicottero calarsi dall’alto e posarsi a terra come un uccello di metallo che volteggia, si ferma e alza vento di bufera che spezza il respiro. L’allarme era scattato all’alba quando al rifugio si erano accorti che i ragazzi non vi avevano fatto ritorno. Ci fu un grande trambusto, poi caricarono tre corpi avvolti nelle coperte e volarono via, verso la valle. Tre giovani volevano raggiungere la cima della montagna rossa, ma lei non li voleva e aveva scaricato una mitragliata di pietre per farli cadere. Tutti dicono che la montagna è rossa per via del minerale di ferro, ma io sono convinta che quel colore sia il sangue di chi è caduto e la sua forma di dente di squalo è un presagio o un avvertimento. Dice: “via da qui”. Negli anni decine di elicotteri hanno portato a valle i miei amici. Qualcuno è stato travolto dalla valanga di neve, alpinisti esperti, muscolosi e duri per l’allenamento, altri sono precipitati per centinaia di metri. Basta un secondo di distrazione, uno starnuto, il volteggio di una mosca molesta, una pietra scivolosa e si va giù. Il cielo si allontana sempre di più e ti risbatte sulla terra, da dove sei venuto.

“E’ impossibile. Una donna di montagna non può soffrire di vertigini. Dài, fifona, andiamo a fare una passeggiata in alto, verso il sentiero dei camosci”, insiste Giò, mentre il trio di fisarmoniche lavora di braccia per soffiare il mantice. La musica che ne esce dà allegria. E’ quello che i turisti cercano, il folklore esagerato, i canti profondi e struggenti, le bestemmie in dialetto e l’odore acre di legna bruciata.

“Se si chiama sentiero dei camosci, ci sarà pure un motivo”, dico sarcastica.

I salti nel vuoto mi disorientano, forse mi attraggono, e il paradosso è che, pur vivendo in montagna, ho sviluppato un malessere definito acrofobia, la paura delle altezze. Qui ognuno ha il suo ruolo: il camoscio s’arrampica su una parete verticale, la marmotta fischia per lanciare l’allarme al branco, la montanara se ne sta quieta di fronte all’uscio di casa a pulire porcini o erbe di campo, a seconda della stagione. Non ci mescoliamo, ognuno sta al suo posto: il camoscio salta con le zampe elastiche, la marmotta fischia, la donna lavora. Ormai mi sono perfettamente calata nel ruolo. Indosso un abbigliamento adeguato, con camicia a scacchi, pantaloni sgraziati, scarponi scomodi e niente trucco. L’olfatto si è abituato a quel sole distratto che esalta i profumi, il gusto è affinato dal latte appena munto, l’udito sente lo strisciare della serpe. Quanto alla vista, beh, quella si è assuefatta a guardare l’alto muro di montagne, oltre il quale il mondo si apre.

E abitando in montagna, sono del tutto démodé, fuori moda.

Non sono vegana, né vegetariana. Adoro il sapore forte della selvaggina che sa di bosco. A rigor di logica rispetto gli animali ma non sono animalista a tutti i costi, non potrei esserlo visto che trancio la testa delle rane con le forbici e infizo le serpi col bastone. Bevo latte appena munto a garganella, anche se i villeggianti dicono che puzza di stalla e provoca crampi allo stomaco. Sono ghiotta di uova crude. Che ne posso sapere io delle nuove tendenze in fatto di diete alimentari salutari? E poi compro scarpe tacco dodici che non metto mai, perché rovinerei a terra camminando tra i ciottoli di fiume. Non uso creme miracolose, mi bastano gli intrugli fatti in casa con le erbe officinali. Non sono natural style, né smart e neppure troppo green.  A dispetto delle mode, sono una donna di montagna tanto simile a una trota marmorata che salta controcorrente come una forsennata. E, per la moderna economia globale, questo significa una cosa sola: come amano dire gli anglofoni, sono unstylish, ovvero, detto in tre lettere, sono out. Eppure ai cittadini piace tanto lo stereotipo della montanara che, nell’immaginario collettivo, è la versione non troppo femminile di un Messner o di un Corona: corpo sgraziato da spaccalegna, parlata ruvida e cantilenante, carattere spigoloso e coriaceo. La montanara è l’antitesi della donna Alpha, è un essere primordiale innocuo, fuori gara e per questo non fa paura.

“Ehi. Ma ti ricordi quando vivevi a Milano? Eri uno schianto. Non che adesso…”. Giò è su di giri, la festa campestre gli ha tirato fuori il lato rozzo che è in lui, che cerca di nascondere sotto la camicia di flanella stirata a puntino. Mordicchia il formaggio fino alla crosta. Ha le labbra cianotiche, tinte dal vino spesso e color magenta che continua a versare e, sul taschino della camicia ha una patacca di grasso d’alpe che sembra una medaglia al merito. E’ sempre un bell’uomo nonostante l’età, anche se qui è tornato adolescente. La montagna fa brutti scherzi, penso che sia l’euforia per carenza di ossigeno, nonostante l’altezza non sia così elevata da mandarlo in apnea. Chissà, forse un urbano ha bisogno tempo per ambientarsi.

Giò mi fa precipitare nel bel mezzo degli anni Ottanta, quando mi ubriacavo della Milano da bere. L’avevo bevuta a lunghe sorsate tra gli studi universitari e gli amici, tra cui c’era anche Giò. Il lavoro e la carriera erano a portata di mano. Bastava cogliere l’attimo e tuffarsi a capofitto.

“Ricordo bene quegli anni”, dico.

“Non hai mai pensato di trasferirti di nuovo in città?”, insiste senza troppa convinzione, biascicando le parole, assorto com’è dal sapore della toma che gli impasta la bocca.

“Che domanda. Certo che ci ho pensato”.

“E perché non l’hai fatto?”.

“Per distrazione”.

“Bella risposta, anche se non ho capito cosa vuol dire. Distratta da cosa?”.

“Dal silenzio”, rispondo.

Le parole sono sopraffatte dalla musica. Per fortuna il discorso cade e rotola via, zitto come un ghiacciaio che si ritira lento sotto il calore dell’effetto serra. Alla festa campestre i cori alpini hanno preso il posto delle fisarmoniche e le voci lente e cupe creano un’atmosfera nostalgica e patetica che lacera il cuore. Non posso ascoltarli senza che mi prenda una malinconia profonda. Parlano di alpini che partono e non ritornano più, di pene, di amori contrastati, di preghiere e delle insidie dei crepacci. Uno strazio.

“D’accordo, mi hai convinta. Quando hai fatto il pieno di proteine animali ti accompagno verso la cascata. E’ un trekking facile”, dico. “Poi devieremo sul sentiero dei camosci”.

Ho l’impressione di aver vissuto due vite, entrambe affette da disturbo della personalità. In città mi sentivo montanara, in montagna mi sento cittadina. E’ la natura che mi ha giocato un brutto scherzo.

“Ci vuole talento per portare avanti una vita silenziosa, lontano dai riflettori, dalla carriera”, insiste Giò. Cammina, anzi arranca sulla mulattiera col volto paonazzo. Non capisco dove voglia andare a parare, con quel panegirico sulle bellezze della montagna e il mio ritiro dal mondo civile. Il discorso sa di epitaffio in lode all’amica defunta.

Oggi è ferragosto e i vacanzieri sono chiassosi e inquinanti, ma d’altra parte la folla non è mai ecocompatibile. Con la bella stagione le feste all’aperto brulicano di affamati e le offerte si moltiplicano: si può scegliere tra sagre di funghi, uva, lumache, patate, cinghiale, segale, mele, mirtilli, castagne, ciliegie e, ovviamente, polenta e cannabis sativa.  Qui e là gli ingordi drogati di cibo bivaccano sui prati, lasciando tracce del loro passaggio.

“Che fai adesso? Ti metti a fare la spazzina?”. Giò sgrana gli occhi. Sono riuscita a impressionarlo. Strada facendo ho infilato un guanto di lattice e ho raccolto un bicchiere di plastica, quattro tovaglioli di carta luridi, il tappo di una bottiglia e una lattina di birra vuota. C’è anche l’involucro di un integratore energetico. Chi viene da queste parti è convinto di aver estremo bisogno di ricostituenti, sali minerali e intrugli vari per affrontare il cammino. Perciò mangiano a schiattapancia i manicaretti della festa o s’imbottiscono di supplementi alimentari, e poi lasciano in giro i resti perché è faticoso portarli nei bidoni a valle.

Ho riposto il pattume in un sacchetto che mi porto sempre appresso. Lui storce la bocca in segno di disgusto per quello che sto facendo. Non capisce la mia vocazione da operatrice ecologica e fa lo spiritoso:

“Mi piacerebbe vederti a Milano mentre rovisti nella spazzatura, magari in punta di piedi coi tacchi a spillo e vestita col tailleur Dolce e Gabbana”.

Il sentiero per arrivare ala cascata è ancora lungo e dovrò portare il sozzo fardello per tutto il tragitto. C’è un’aria spessa da acquazzone imminente, seppure il triangolo di cielo sembri un vetro appena pulito. Sono sicura che, prima di sera, nubi gonfie e nere si accatasteranno l’una sull’altra e si svuoteranno sopra le nostre teste. Evito di informare Giò, perché mi direbbe che sono la solita fattucchiera menagramo. Invece è tutto calcolato, è l’abitudine a girare lo sguardo e cogliere i particolari, i messaggi che la montagna suggerisce. Per esempio, la conferma sulle previsioni del tempo arriva da alcuni fiori con l’aspetto di carciofoni dai petali legnosi; non mentono mai, sono un barometro preciso e affidabile. Sul pendio, tra i rododendri e le pietre, le infiorescenze delle Carline si sono chiuse, segno che l’umidità ha superato il limite e, tra non molto, arriverà il solito temporale estivo.

“Che giornata spettacolare”. L’amico gongola di piacere e per il momento non intendo rovinargli la festa. Lo accompagnerò sino al lago e poi gli indicherò il sentiero dei camosci. Il primo tratto è facile e attraversa il lariceto che fa da sponda sicura al precipizio, ma oltrepassando la pisciavacca, la cascata che taglia in due il dirupo, il paesaggio cambia all’improvviso. Oltre il salto d’acqua si aprono le porte dell’inferno.

“Ti aspetto qui”, gli dirò.

“Fifona”, replicherà prima di sparire dietro la cascata.

A quel punto scoppierà il temporale e Giò, zuppo di pioggia gelida, non troverà ripari sicuri. I fulmini illumineranno il cielo, si scaricheranno sulla punta degli alberi a pochi passi da lui e immaginerò il terrore nel suo sguardo. La terra scivolerà sul muschio trasformando il sentiero in un tappeto viscido come il girino di un tritone alpino. Il rombo del tuono soffocherà la sua voce e sarà quello il momento giusto in cui gli urlerò:

“E’ proprio qui che vorresti vivere in eterno?”.

Se sei una donna e nasci in montagna, prima o poi diventi come lei, superba, bastarda e dannatamente spietata.