Lo zio Nicola e il rugbì. Per Rebecca [Lettera 32]

di Beppe Giuliano

 

 

Lo zio Nicola l’unica volta che mi parlò mi chiese: a te piace il rugbì? Pronunciandolo alla francese, accento sulla ì finale e la g quasi del tutto mangiata dalla b.

Non era mio zio davvero, stava spesso da mia zia anche se ne aveva una sua, di casa.

Non lo accettavano, i miei genitori, nonostante mia zia fosse da tanti anni vedova, e di un uomo che probabilmente aveva amato molto poco.

Quando mi portavano a trovarla lui se ne stava in disparte, in un’altra stanza o seduto in un angolo senza parlare.

Lo ricordo così, nella penombra, lontano, tarchiato con una testa rotonda tutta pelata. Doveva avere al massimo una settantina d’anni e mi sembrava vecchissimo, come succede ai bambini con gli adulti. Per come lo ricordo era un contadino di una volta, con le mani grandissime, callose e il vestito buono che si metteva il giorno della festa del paese, quello del santo patrono.

Non so nemmeno se morì prima o dopo mia zia. Lei al cimitero è di fianco al marito, lo zio Nando, passerà l’eternità con un uomo che probabilmente aveva amato molto poco.

Anche lo zio Nando era stato un atleta, mi raccontava mio padre che ha conservato una medaglia del 1913, vinta in una gara di marcia sui cento chilometri organizzata dalla Gazzetta dello Sport, definita con la tipica enfasi di allora “Preolimpica”. Poi la “grande guerra”, e la pallottola del cecchino austriaco, maledetto, entrata da un fianco e uscita sotto l’altra spalla, il cuore per miracolo solo sfiorato ma i polmoni no, loro non gli permisero più di marciare quando tornò finalmente a casa. Tutti quei mesi in trincea e gli assalti e la ferita una traccia la lasciarono, lo chiamavano “il sergent lucc”, il sergente matto, aveva ammesso controvoglia mio padre, che a lui era legatissimo.

 

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Quando ero ragazzo, diciamolo chiaramente, senza temere di andare contro il “politically correct”, tutti – tutti – pensavano che ci fossero sport che le ragazze non potevano o dovevano fare.

Alle Olimpiadi di Monaco del 1972, le prime che ricordo, tra le gare a squadre solo la pallavolo ebbe pure il torneo femminile (le ragazze della pallavolo). Niente sport di contatto. Niente pallacanestro, calcio, hockey su prato o, figuriamoci, pallanuoto.

La atleta più celebrata di quell’edizione fu “il passerotto” Olga Korbut. Indovinate? Sì, vinse diverse medaglie della ginnastica artistica.

Nell’atletica leggera la gara femminile di corsa più lunga furono i 1500 metri. Niente 5000 o 10000, niente maratona figuriamoci. Letto ora sembra incredibile, vero?

 

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Le partite italiane di rugbì che si vedevano in tivù negli anni settanta erano sempre giocate in paludi. Dopo pochi minuti sullo schermo in bianco e nero non distinguevi più i giocatori delle due squadre (una delle due era sempre il Petrarca di Padova), impegnati in una zuffa nel fango.

Niente a che vedere con le partite del “5 nazioni”. Già, non ci avevano ancora aggiunti, probabilmente sapevano il divario imbarazzante che ci separa dalle squadre britanniche più la Francia, cioè da quelle forti, divario imbarazzante che persiste dopo quasi vent’anni che le nazioni, con noi, sono diventate 6 (e continuiamo a “guadagnarci” cucchiai di legno e whitewash, i non ambiti premi destinati agli ultimi).

Commentava le partite Paolo Rosi, eleganza e competenza sublimi, oltre a un eccezionale passato da atleta: unico italiano convocato a giocare nel tempio di Twickenham, all’inizio degli anni cinquanta, in una squadra dei migliori d’Europa, e in quell’occasione segnò una meta all’Inghilterra.

Era stringato, ma ogni volta che giocava la Francia ribadiva la storia dei fratelli Spanghero.

Gran storia davvero: Dante Ferruccio Spanghero, friulano andato a cercare fortuna oltralpe, sposò Romea ed ebbero otto figli. Due ragazze e sei ragazzi grandi e robusti come piante secolari, tanto bravi nel rugbì che uno di loro, Walter, divenne capitano della nazionale dei galletti. Tutti diventati imprenditori dell’agroalimentare, dopo la carriera sportiva. Specialità la “cassoulet”, piatto tipico della Linguadoca a base di fagioli secchi e varie carni, solo un’assonanza nel nome con la “cassoeula” che invece si fa con le verze e il solo maiale.

Anche lo zio Nicola andò a cercare fortuna in Francia, nel periodo tra le due guerre, e lì giocò a rugbì. Secondo i minimi racconti che sono arrivati fino a me, filtrando attraverso la rete di silenzio che lo circondava, diceva di aver giocato nelle più forti squadre francesi, chissà?

Probabile che in Francia abbia fatto fortuna. Tornato qui s’era comprato una villa molto bella a pochi chilometri da Alessandria. Certo, spesso stava da mia zia, cosa che i miei non accettavano.

 

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Guardo poco il rugbì, onestamente. Il gioco è bellissimo sia chiaro, quando praticato ad alto livello. Sport tecnico e complesso, oltre che atleticamente provante, e in cui la squadra deve funzionare alla perfezione: ho assoluto rispetto per questi grandi atleti. Ma vederlo… o è una partita ad alto livello, o è terribile. Non guardo mai la nazionale infatti, del tutto inadeguata a giocare con quelli forti. Detesto la maggior parte degli storytelling à la mode, e trovo stucchevole la cantata sul “terzo tempo” (non il “terzo tempo”, eh, ma quell’alone mistico che gli han costruito attorno, di solito per sottintendere che in altri sport va diversamente).

Sono cresciuto quando tutti – tutti – pensavano che ci fossero sport che le ragazze non potevano o dovevano fare. Quindi, a maggior ragione, non ho mai visto una partita di rugbì femminile.

Però la notizia della morte di questa ragazza, Rebecca, mi ha colpito. Abbattuto. Come un placcaggio, di quelli che faceva uno Spanghero.

Rebecca Braglia, 18 anni. Aveva l’età di mio figlio, maledizione. Morta facendo questo sport, giocando a rugbì: per lei era un gioco, naturalmente, un gioco bellissimo, un gioco che la riempiva di gioia. Sul web c’è un video, di quando aveva undici anni. Dopo una giornata di gare del Rugby Reggio intervistava l’assessore, il direttore del torneo, altri bambini e a tutti chiedeva se gli piace giocare a rugbì.

Non ne avevo mai scritto, neanche pensavo di farlo, e non lo farò più credo. Rebecca mi ha fatto ricordare lo zio Nicola e quella sua domanda: a te piace il rugbì?

Lei, sorridendo, avrebbe risposto: sì!