Oggetti (filmici) misteriosi [Il Superstite 377]

ATO6: "Crisi idrica, i cittadini siano più parsimoniosi con l'acqua" CorriereAl 1di Danilo Arona

 

 

Oggetti isolati, capolavori reali o mancati che brillano irraggiungibili nella loro unicità, excursus o esercitazioni o spedizioni (non) punitive di grandi maestri del cinema nella giungla del nostro genere preferito e spesso non definibili proprio in quanto “genere”. Perché in molti casi sul confine del cinema della paura la pertinenza del genere, per fortuna, non esiste. Sono spesso scrigni inespugnabili non sempre di facile interpretazione ammesso e personalmente non concesso che certo cinema “alto” si debba a tutti i costi interpretare. Ma esercitano, e continueranno a esercitare, un fascino cui è difficile sottrarsi. E ogni tentativo puerile d’ingabbiamento, anche nostro – che so, horror d’essai o horror d’autore – non rende affatto l’idea. Peraltro il paradosso è dietro l’angolo, perché stilemi e tematiche tipiche dell’horror vi sono coinvolte a pieno titolo. Ma restano, e resteranno sempre, film-categorie a sé stanti.

Per evitare che il discorso si faccia fumoso, vi propongo come esempio la seguente terna: Images di Robert Altman 1972,  Picnic a Hanging Rock di Peter Weir del ’75 e L’australiano del 1978 di Jerzy Skolimowski, film che, si noterà, appartengono tutti a quel decennio fondamentale in cui il cinemaosava e sperimentava soprattutto all’interno dei generi popolari. Anni in cui mostri già sacri quali Roman Polanski con Rosemary’s Baby e William Friedkin con L’esorcista si “sporcavano le mani”, per capirci, in un filone sino a poco tempo prima considerato di serie B. Si tratta di tre film in cui in ruolo predominante lo gioca la riemersione dell’inconscio. Dove i protagonisti si smarriscono in dimensioni “altre” che l’autore, più che visualizzare, evidenza per allusione. E dove la paura riesce a filtrare per “sottrazione” e non per “esibizione” A rinfrescare le memorie e magari invitare chi non li hai visti a farlo, partiamo proprio dal film di Altman.

Images, per usare le stesse parole del grande regista scomparso nel 2006, è la storia di un essere umano che diventa qualcun altro, tema caro a un Roman Polanski che lo declinato in modo mirabile in Repulsion del ’65  e ne L’inquilino del terzo piano del ’76. Vi si narra di una donna che di mestiere scrive fiabe e che vive in una casa isolata dove ben presto sarà preda dei fantasmi creati dalla sua stessa mente. Ad Altman, grande navigatore tra i generi (giusto per andarci oltre), non interessano affatto i meccanismi tipici del thriller horror: nella sua pingue e bella filmografia gli oggetti misteriosi non mancano proprio (dai fantascientifici Conto alla rovescia e Quintet al grottesco Anche gli uccelli uccidono, dall’onirico Tre donne al noir Il lungo addio, tutte pertinenze di comodo, sia chiaro…) e Images in questo è forse il più estremo di tutti, perché, rivisto  a più di quarant’anni, è ancora un notevole saggio di cinema che nel ’72 ha avuto il coraggio di rompere le regole a dispetto dello spettacolo e delle false aspettative di chi entrò in sala credendo di vedere un altro film (era giusto l’epoca degli schizoidi assassini di Argento e la sua scuola). Però fa paura. I fantasmi che sono anche fantasmi-immagine alterano la percezione e scompongono la realtà, il doppio della protagonista a sua volta si sdoppia e si scompone. La donna vede sé stessa qua e là in un crescendo di intrusioni brutali dell’elemento fantastico che in futuribile prospettiva sarebbero degni di quel Mulholland Drive di David Lynch che, in quanto a film-categoria,  proprio non scherza.

Picnic a Hanging Rock (in Italia sottotitolato Il lungo pomeriggio della morte) lo vidi a Parigi nel ’77 al Festival Internazionale del cinema fantastico dove vinse il secondo premio. Penso che ricordiate tutti la vicenda delle quattro adolescenti che s’inerpicano lungo una roccia misteriosa per scomparire in un nulla indefinito. Un enigma senza soluzione che Weir immerge in un’atmosfera trasognata e morbida, ma niente affatto tranquillizzante. «La vita è sogno, soltanto sogno, il sogno di un sogno», sussurra Miranda all’inizio del film, ma già nel ’77 critica e spettatori non si accontentavano di crogiolarsi fra metafore e onirismi e ricorrevano proprio a uno dei grandi alfieri storici dell’horror per offrire al mondo interpretazioni di lettura. Saggisti come Jacques van Herp e Michael Caen parlarono di film “à la Lovecraft”, perché abbondavano appunti gli ingredienti tipici della narrativa dello scrittore di Providence, ovvero (alla rinfusa): il luogo “maledetto” che è il portale oltre il quale le ragazze spariscono, la magica atmosfera della roccia, i “segni” come gli orologi che si fermano e le unghie della superstite che appaiono spezzate, messaggi filmici che non sono affatto decodificabili e occultano, anziché svelare, i misteri. Ma è tutto il film – e non solo la prima parte lovecraftiana – a presentarsi come uno stupendo horror “in sottrazione”, con la macchina da presa che segue, come un’entità che spia da altre dimensioni, tanto la fuga delle ragazze quanto le vicende che avvengono al seguito della loro scomparsa. Una natura affascinante ma pericolosissima e interni ambientati nell’Appleyard College che sembrano frammenti di oscure ghost stories in pieno contrasto con la luce solare, ma “oscura” pure lei, del primo tempo. E non sbagliò chi ai tempi paragonò l’enorme roccia fallica di Hanging Rock al monolito nero di 2001 odissea nello spazio di Kubrick e al reperto sepolto sotto la metropolitana de L’astronave degli esseri perduti di Roy Ward Baker, due titoli che si possono definire come “paralovecraftiani”, a dispetto persino dei loro autori.

I confini tra l’horror e il mainstream si sgranano ancor di più in The Shout (L’australiano), firmato da quell’autore straordinario e sfuggente, nonché avaro di titoli, che ha firmato La ragazza del bagno pubblico e Essential killing, ovvero Jerzy Skolimowski. Anche qui, in odor di Peter Weir e di Australia alquanto sinistra, con l’espediente narrativo della “storia” nella storia (giusto per saperlo, la cornice si ambienta in una clinica psichiatrica della campagna inglese) si viene a conoscenza delle traversie del musicista Anthony, un tempo marito felice la cui vita cominciato ad andare in pezzi quando nella sua casa irrompe un misteriosissimo personaggio di nome Crossley, reduce da esperienze stregonesche con gli aborigeni australiani. In particolare Crossley sarebbe in grado di uccidere con la semplice emissione di un urlo spaventoso. Tutto giocato “in levare” con la progressione degli eventi che distruggono l’equilibrio della coppia e la sanità mentale di Anthony, la vicenda narrata diluisce nella cornice quando chi racconta confessa all’ascoltatore di essere lui stesso Crossley. In un possente e drammatico finale si scatena un temporale distruttivo sopra il manicomio  e Crossley lancia al cielo il suo urlo, abnorme e terrificante,  morendo insieme al direttore della clinica e a un terzo malcapitato. Film disturbante e coinvolgente, tutto basato sulle percezioni sensoriali (soprattutto uditive: i suoni, i rumori, il racconto, l’urlo), The Shout è uno stupendo “horror d’autore”, girato magnificamente  e dedicato a coloro che credono nel potere della magia. Soprattutto, se viene dall’Australia.