La prima Cattedrale di Alessandria [Alessandria in Pista]

Copia di Cento cannoni per Alessandria [Alessandria in Pista] 33di Mauro Remotti

 

 

L’edificazione della prima cattedrale[1] fu pressoché contemporanea alla fondazione della città di Alessandria e alla costituzione della Diocesi.

 

Nel 1170 i consoli Rufino Bianchi e Guglielmo de Brasca acquistarono un terreno di tre iugeri[2] nella parte sud-orientale della “platea major”[3], l’odierna piazza della Libertà, al fine di costruirvi una “maior ecclesia”. Si recarono quindi a Benevento da papa Alessandro III per donargli il sedime; a sua volta il pontefice investì gli alessandrini come propri vassalli. Tale finzione giuridica rese possibile alla neonata città di ottenere un importante riconoscimento riguardo alla sua esistenza legale, negata invece da Federico Barbarossa.

 

La chiesa primigenia, di scuola romanica, venne elevata alla dignità di cattedrale e dedicata a San Pietro. Fin da subito, però, risultò troppo angusta per accogliere la popolazione alessandrina che nel frattempo era quasi raddoppiata di numero, passando da 6.000 a 11.000 abitanti.[4]

La basilica fu dunque riedificata in uno stile di transizione lombardo-gotico. I lavori – iniziati probabilmente a partire dal 1288 e ultimati nel 1297 – vennero diretti dal faber et architectus casalese Ruffino Bottino.

Purtroppo, restano pochi documenti a testimonianza dell’aspetto originario del duomo medievale[5]. Dai rilievi settecenteschi è comunque possibile fornirne una soddisfacente descrizione.

La facciata – caratterizzata da un paramento in opus mixtum di fasce alterne rosse e bianche in cotto e in pietra[6] –  era rivolta verso contrada Larga (l’attuale via dei Martiri). La porta di mezzo, opera di Innocenzo Perdono, risultava la più riccamente ornata dalle strombature molto grandi ed esteriormente decorate da archivolti sostenuti da colonnette e cordoni. Il duomo, a tre navate con campate coperte da volte a crociera, era altresì sormontato da alcune guglie piuttosto tozze, sulle quali furono collocati due famosi trofei di guerra strappati ai casalesi nel 1215: il galletto di ottone[7] e un angelo. Le catene di un ponte di Pavia, sottratte nel 1282, vennero appese all’inferriata della cappella di S. Croce. Le stesse saranno poi utilizzate per attrezzare il camino della cucina da parte di un incauto sacrestano.

Al suo interno erano presenti pregiate pitture, tra cui quelle di Antonio Maria Semino, e un grande crocefisso d’argento di arte renana che nel Quattrocento venne razziato dalle truppe del capitano di ventura Facino Cane e sistemato nella Chiesa di San Evasio a Casale.

La cattedrale fu arricchita anche da diverse cappelle laterali aggiunte gradualmente tra il XIV e XV secolo. In primis, la cappella dedicata a Santa Caterina, intermedia sul lato settentrionale, costruita dalla famiglia Ghilini nel 1434. Quella accanto, verso la torre, dedicata a San Silvestro, venne realizzata da Guglielmo Baschiazza. In seguito cambiò il  nome in Madonna dell’Uscetto, per via di una tavola dipinta della Madonna vicino a una porticina posta alla sinistra dell’entrata del duomo. Sullo stesso lato, nel 1489, fu costruita un’apposita cappella (poi abbattuta per far posto alla sacrestia, e ricostruita nel 1649) per ospitare il miracoloso simulacro della Madonna della Salve, già venerato in Rovereto. La cappella della S.Croce, terminata contestualmente alla chiesa, era chiusa da un’inferriata e conservava una scheggia della croce di Cristo conquistata a Costantinopoli nella crociata del 1204. La Cappella di San Giuseppe, talvolta chiamata di San Perpetuo, esistente già XVI secolo, custodiva una mirabile statua del santo con in braccio Gesù Bambino, opera di Parodi da Genova. Infine, si trovavano le cappelle di S. Andrea, già della Concezione, e della SS. Annunciata.

Tra il 1478 e il 1484, venne innalzato contro la parete settentrionale del presbiterio il monumento funerario del Vescovo Marco Cattaneo de’ capitani, di cui si conserva il notevole altorilievo murato nella parete di fondo del corridoio di accesso alla sacrestia dell’odierno duomo.

L’antica cattedrale fu poi dotata di un campanile, quadrato e ampio, alto una trentina di metri, ubicato sul lato sinistro. I lavori di costruzione iniziarono nel 1292, caratterizzati però una estrema lentezza, tanto che dopo ben due secoli non erano ancora terminati. Nel 1510 un decreto cittadino ne ordinò la celere ultimazione, che avvenne soltanto nel 1629. La torre campanaria svolgeva anche funzioni comunali: al suo interno si trovava “la stanza dei notai”, ossia la sede dell’archivio e del catasto. La porta era sormontata da un telamone, raffigurante forse il mitico Gagliaudo Aulari[8] , e da un rozzo bassorilievo in cui si riconosce una lupa cavalcata da un bambino, in ricordo del miracolo di San Francesco che ad Alessandria rese mansueta una belva che infestava l’agro circostante.

Il campanile venne abbellito da cinque orologi: quattro a formare una crociera, e sotto quello noto come orologio della luna[9]. Sulla porta erano anche scolpite le misure che servivano di controllo per le controversie in tempo di fiera e di mercati. Infine, si conservava una delle due chiavi di ciascuna torre dei castelli del distretto, mentre l’altra era depositata presso il prevosto S. Iohannis deroboreto.

Gli statuti cittadini prevedevano pene severe nei confronti di chiunque non avesse portato rispetto a luoghi dedicati al culto religioso: era infatti proibito giocare presso la chiesa e il campanile e anche vietato alle meretrici di abitare nelle vicinanze.

Nell’ultimo secolo di vita, prima cioè dello scellerato abbattimento avvenuto nel 1803 a seguito di un decreto firmato da Napoleone Bonaparte, la cattedrale fu sottoposta a diversi importanti interventi decorativi che ne accrebbero ulteriormente il valore artistico[10] e il conseguente rimpianto per la sua repentina demolizione.

 

 

[1] Tra le principali fonti sull’argomento: Francesco Gasparolo, “La vecchia cattedrale di Alessandria”,  Società di Storia Arte e archeologia Accademia degli Immobili, 1904; “Alle radici di Alessandria”, a cura della Fondazione CRA”, Giulio Ieni, “La cattedrale antica”; Eva Gatti, “La vecchia cattedrale”.

[2] Di pertinenza del quartiere di Marengo ovvero di proprietà del quartiere di Rovereto. Secondo Pietro Civalieri apparteneva ai Marchesi di Bosco che gli alessandrini presero in allodio.

[3] Da notare che la Platea Major si trovava all’epoca in periferia, giacché il centro era rappresentato dalla zona di Santa Maria di Castello. Era comunque un punto destinato a diventare focale per la sua vicinanza al ponte sul fiume Tanaro e al “Palatium Vetus”, primo nucleo del potere politico-giudiziario.

[4] In età comunale il popolo si radunava nelle chiese dove si tenevano le assemblee. I templi costituivano dunque il centro della vita politica. La cattedrale veniva considerata come appartenente al comune e di conseguenza i cittadini dovevano pagare una tassa per coprirne i costi di costruzione e di mantenimento. Al contrario, i palazzi comunali servivano soltanto all’amministrazione ordinaria della giustizia e alle riunioni più ristrette.

[5] Vedasi le relazioni di visita pastorale dei vescovi Arborio Gattinara (1730) e De Rossi (1760), oltre agli appunti del canonico casalese Giuseppe de Conti. Di grande interesse la perizia effettuata da Pietro Casalini, architetto del Comune, per stimare la spesa della definitiva demolizione ordinata da Napoleone nel 1803.

[6] Peraltro non estraneo alla tradizione locale e monferrina dell’epoca. Simile al vecchio duomo è infatti la chiesa di S. Dalmazzo a Quargnento, i cui lavori di costruzione vennero iniziati il 31 Marzo 1270 dai magistri comacilli  Ruffino Taiso e Giacomo Raco

[7] Il galletto in ottone dorato, alto 31 centimetri dalle zampe alla cresta e lungo 43 centimetri dal becco alla punta della coda, ora posto sopra le campane dell’orologio di Palazzo Rosso, simboleggia ottocento anni di storica rivalità con Casale Monferrato.

[8] Non tutti però ritengono di vedere ritratte le sembianze dell’astuto contadino. Ercole Ricotti sostenne infatti che la figura scolpita fosse in realtà quella di Anselmo Medico, console dei piacentini e comandante di tutto l’esercito alessandrino al tempo dell’assedio. Inoltre, a proposito della presunta forma di cacio sul capo, pensava si trattasse di un berretto dottorale. Di diverso avviso Francesco Gasparolo, secondo il quale la sproporzione di tale peso rispetto al resto del corpo, nonché il faticoso atteggiamento per sostenerlo, rendesse più plausibile l’ipotesi di una formaggetta lodigiana. Verosimilmente il poco artistico telamone raffigura appunto un Atlante che regge il mondo, un tempo sistemato a ornamento di un antico palazzo longobardo. A parere di Carlo A-Valle, si trovava nella villa regia di Marengo, poi andata distrutta a seguito della fondazione di Alessandria.

[9] Si tratta di un quadrante di indubbia originalità. La leggenda popolare narra che al suo ignoto costruttore vennero strappati gli occhi per impedirgli di produrne un altro uguale.

[10] Il ciclo pittorico della cappella di S. Giuseppe ad opera di Gian Antonio Gioannini per le quadrature e di Gian Carlo Aliberti per le figure, così come gli affreschi della cappella della Salve sempre di Gioannini e di Giuseppe Bianchi. Ancora: la creazione di addobbi festivi, quali i due “cartelloni” da esporsi alla solennità di S. Pietro, dipinti nel 1769, oppure la realizzazione di “macchine” di sicuro effetto scenografico, tra cui il gruppo di tele costituenti l’apparato per il Santo Sepolcro, affidato ai fratelli Galliari nel 1780.