Le porte scorrevoli dell’universo [Il Superstite 369]

ATO6: "Crisi idrica, i cittadini siano più parsimoniosi con l'acqua" CorriereAl 1di Danilo Arona

 

 

Per qualche strano motivo quando muore un amico si ha la percezione, sulla carta sbagliata, che con lui debbano perire anche i ricordi. Memorie di epoche che non sono più e che vorresti con assoluta e magica convinzione che fossero ancora qui.

Ho purtroppo quell’età in cui diventa sempre più facile accompagnare amici all’ultima stazione. Data l’anagrafe pure io mi trovo sotto scopa e il titolo, a suo modo scaramantico, della rubrica ne fa fede.

Okay, già sto girando a vuoto correndo il rischio di infilarmi in un percorso di banalità. Però ci sono dipartite che, più di altre, si rappresentano simbolicamente. Sarà (anche) che l’ultima è coincisa brutalmente con quel che Mattia Feltri, su “La Stampa” del 7 Marzo, ha definito – riferendosi ai risultati delle elezioni ma in filigrana anche a un epocale giro di boa “sociale” – come la definitiva fine del Novecento, ma da allora vivo, non so se in compagnia o da solo, in una sorta di strana bolla di connessione col presente che fa precipitare nella nebbia immagini e situazioni che a quell’amico, caro come pochi altri, erano, sono, legate.

Tutto questo, che sto faticando non poco a tentar di descrivere, è sconcertante, ne convengo. E forse il perverso meccanismo fa parte dell’elaborazione del lutto, di certo non paragonabile a quello dei famigliari, ma sempre di lutto si tratta. Eppure senza dubbio la nebbia di cui sopra non ha ragione di esistere. Perché a lui sono legati i miei anni forse migliori, grosso modo dal 1980 al 1984, quando uscito da una fase mia un po’ turbolenta e infelice, lui mi ha teso una mano senza sapere che me la stava tendendo. Ne ho approfittato, ovvio, e si sono messi in moto meccanismi l’un l’altro collegati che hanno portato in breve a qualche positiva conseguenza: su tutte, un lavoro divertente e per l’epoca pionieristico e l’aver conosciuto la mia allora futura moglie, ancora oggi al mio fianco. Io su quest’ultimo fronte non gli fui da meno anche se poi il destino è un signore che gioca in solitario senza la nostra complicità. Ma, insomma, la scenetta delle nostre, personali sliding doors andrebbe raccontata per esteso. Perché nel suo piccolo è istruttiva. Era di sabato, ne sono certo, tarda estate, anno 1981.

Camminavamo per via Trotti e a un certo punto ci ritrovammo all’angolo con via Piacenza. E lì ci bloccammo in quanto, diretti in Piazzetta, avevamo a disposizione due percorsi diversi per arrivarci. Il primo consisteva nel tirar dritto e svoltare in fondo a destra in via Vochieri; il secondo, prendere per via Piacenza ed entrare in Corso Roma. Ne scaturì una surreale e divertita discussione perché l’uno – non chiedetemi chi dei due, proprio non lo ricordo – propendeva per Trotti e l’altro per Piacenza. Nessun motivo reale o razionale di preferenza, solo la voglia di fare i bastian contrari a ogni costo, tipica deviazione mandrogna. Alla fine si scelse via Piacenza e non so se si tratti della sindrome da falso ricordo, ma oggi giurerei che si trattava della mia scelta, anche se di per sé il fatto riveste scarsa importanza. Insomma, ci incamminammo in direzione della vasca, ma dopo pochi metri lui esclamò: «Capperi, chi è?». Non disse “capperi”, sia chiaro. Disse quel che dice sempre in quelle occasioni tra maschi in fase allupata, credo lo si capisca. Al di là dell’eloquio, stavo assistendo a un colpo di fulmine in tempo reale. E, buon per tutti, io conoscevo bene colei che ci stava venendo incontro del tutto casualmente. Presentai l’uno all’altra e nell’uno già vedevo dilagare il morbo dello scimmione. Non dico cotto come una pera da ospedale, ma poco ci mancava – e garantisco qui che la ragazza era del tutto degna di tanta pulsione. Finiti i convenevoli, ognuno riprese la sua strada e lui per almeno mezz’ora continuò con una serie di “capperi” per celebrare l’indiscussa beltade di lei. Poi ci lasciammo e io tornai in negozio dove, sorpresa, dove da lì a poco, sorpresa, mi telefonò lei. Elettrizzata come se avesse messo le dita nella presa, leggi colpo di fulmine reciproco.

Si sposarono l’anno dopo. Innamoratissimi e, citando Fausto Leali,  con quella stupida felicità dipinta sul volto “privilegio che a pochi l’amore dà” – peggio per voi, se ignorate la canzone… Io, dato il mio ruolo tutto sommato fortuito che avevo avuto nell’abboccamento, ero il testimone di lei. Andarono all’altare nella stessa chiesa dell’ultimo viaggio di lui pochi giorni fa e mi ricordo di un audace Fabio Tolu, compagno di molte nottate musicali, che accompagnava gli sposi con un pezzo dei Boston virato in stile ecclesiastico. Degno di Fabio a imperitura memoria. Ricordo anche che la vettura nuziale transitò davanti al negozio e la mia fidanzata Fabiana, uscita ad applaudire, s’impadronì anzitempo di un bouquet. Fu di clamoroso buon augurio.

Io mi sposai l’anno dopo – siamo nel 1983 – e la nostra esperienza di team lavorativo proseguì sino al primo semestre del 1984. Lui e io ci ritrovavamo un po’ debilitati e anche felici di concluderla lì. Poi la vita ci fece deragliare perché per qualche motivo sciocco gli sposi novelli manifestano una tendenza iniziale a isolarsi. Ci vedemmo qualche volta, ma erano briciole rispetto al quotidiano del passato. Eh, sì, peccato, ma succede ed è successo con qualche altro amico. Non c’è da recriminare, così va il mondo.

Qualche giorno  fa mi ha raggiunto la notizia. Una mazzata che continua a far male. Accompagnata dalla paura che vadano via anche i ricordi che ho tentato in minima parte di trasmettere. Adattando a uso personale alcune parole di Stephen King da Stagioni diverse, è proprio vero che nella vita gli amici vanno e vengono come fattorini di un albergo. Entrano ed escono attraverso porte scorrevoli. Spesso, una volta usciti, può capitare che non li vedrai mai più. Ma restano sempre dentro di te.