Sens’alter [Lettera 32]

di Beppe Giuliano

 

 

Tra le cose che a Milano sono rimaste identiche, rispetto ai tempi in cui era la città del Beppe Viola, ci sono i tram. Ti manca lo sferragliare dei tram, a Boston? chiede Paolo Maggioni alla figlia di Beppe, Marina.

Ecco. Paolo Maggioni, nato in quello stesso 1982 in cui morì Viola, è una seria speranza per il futuro del giornalismo (che oggi mi pare in discussione come mai in passato), e lo conferma all’incontro che proprio a Milano ricorda: “Beppe Viola. Una vita da giornalista. Documenti e testimonianze su un telecronista scrittore e umorista che ha fatto storia”.

Incontro moderato e aperto appunto da Marina, che a me è parsa abbastanza emozionata, e che (òcio, adesso scrivo una di quelle cose per cui il suo papà multava di 5000 lire i collaboratori – tipo “le auto sfrecciano” o “il centrocampista va a battere”) “vista di persona è più alta”.

Marina ha raccontato alcuni aneddoti, più sul papà che ha conosciuto meglio anche se purtroppo per pochi anni, che non sul giornalista, quello che per 1000 lire faceva telefonare lei o una delle sue sorelle a un’agenzia (”credo”, aggiunge) per dettare i pezzi che aveva scritto battendo ferocemente sui tasti della Olivetti.

Volare alto.
Il primo degli intervenuti, Giorgio Terruzzi, è pressappoco il figlio maschio che Viola non ebbe mai (quattro femmine, la specialità della casa, prima di una vasectomia raccontata spudoratamente in diretta alla Domenica Sportiva, cioè la trasmissione che su Rai 1 guardavano quei venti milioni di spettatori bambini compresi, per dire il tipo). Potrebbe raccontare aneddoti “sul Beppe” per giorni e notti, come chiosa Sergio Meda, e invece fa un intervento molto serio (e molto apprezzabile) sul linguaggio, partendo da quando al Dams uno dei suoi insegnanti era Umberto Eco, “che si occupava di teoria dei generi – una pippa gigantesca – e pensava di scrivere Il nome della rosa”.

Paragona qualche incipit di Viola a quattro enormi del racconto, come Hemingway, Capote, Chandler e Runyon, anche perché “il racconto è la forma letteraria più vicina al giornalismo… ne influenza il linguaggio in termini di ritmo”.

E conclude aggiungendo che Viola era molto attento anche alla lingua parlata: “Beppe ti spiegava che più stai basso più forse puoi provare a volare alto”.

Peggiorare.
Imbarazzo (mio). Dopo Giorgio Terruzzi è intervenuto Gianni Mura a raccontare il giornalismo negli anni settanta e ottanta: “questo mestiere era così bello che poteva solo peggiorare”, anche se quando lui iniziò nel ‘65 “fare il giornalista sportivo era disdicevole come, non so, rubare a un cieco”.

Ora, Mura è il più bravo bravissimo giornalista che ci sia, lo sa, tutti sappiamo che di certo non cerca il facile consenso (anzi), dice come sempre cose fichissime però le dice seduto a capotavola, guardando per tutto il tempo nel vuoto senza neanche un’occhiata alla platea (che tra l’altro è formata da colleghi suoi, per quanto meno noti e autorevoli) e, insomma, se proprio avessi voluto andare a sentire uno che manifesta scazzo per il pubblico avrei scelto Lou Reed, piuttosto.

Intervallo.
Beppe Viola voleva dire anche cabaret, a Milano, quando c’era il Derby (non devo aggiungere altro). Perciò, assente Cochi Ponzoni che era in cartellone, quei tempi li richiamano Enrico Beruschi, tenero come quando ancora lo chiamavano in tivù e il vulcanico, a dir poco, Roberto Brivio, l’ultimo rimasto dei Gufi (che tempi, che Milàn, che nostalgia).

Più cabaret che giornalismo anche da Marco Pastonesi (che “nella vita” invece giornalista, bravo, lo è), imperdibile comunque l’aneddoto sul Viola sudato in modo decisamente eccessivo e con una giacca decisamente troppo stretta nella redazione di Vogue Uomo dove lo interpellano sul golf, e lui senza fare un plissè cita G.B.Shaw: per giocare a golf non è indispensabile essere stupidi, però aiuta.

Marchettificio.
Il complice del “marchettificio di via Arbe”, quando si inventarono la syndication senza chiamarla così, è Sergio Meda (il terzo, all’inizio almeno, era Pietro Rizzo) che ricorda la loro “enterprise very nice” (altra immaginifica invenzione di linguaggio). Una “fabbrica” in cui crebbero grandi penne, scrivendo pezzi che venivano venduti a numerose testate in tutta Italia, sovente con la firma di colleghi Rai di Viola, da Bruno Pizzul (l’unico che i suoi pezzi se li scriveva davvero), a Poltronieri, Guido Oddo, Adriano De Zan, che un giorno disse a Meda “mi chiamano per dirmi che scrivi bene i miei pezzi”.
E rivela la risposta che Viola dava ogni volta che qualcuno gli faceva una domanda inopportuna, inutile, anche stupida: sens’alter.

Ufficio 341.
Oltre ai tram, il “democratico viaggiare sul mezzo pubblico”, dunque, altre cose sono identiche rispetto alla Milano di allora, racconta Paolo Maggioni, già autore di due programmi splendidi di memoria di Viola, uno radiofonico a Radio Popolare del 2007 (ne conservo con amore i file audio), uno televisivo del 2012 su Rai 3.
Il bar Gattullo, su cui c’è peraltro tutta una letteratura, in gran parte dovuta al Viola stesso.
Lo slang milanese, oggi persino troppo utilizzato e la punta dell’iceberg è il “taaac” che a Milano si sente dire anche troppo sovente.

E il palazzo della Rai, dove una cosa è cambiata, rispetto ad allora, perché oggi è intitolato a Beppe Viola il suo: “Ufficio 341 (terzo piano, sezione giornalismo) è certamente tra i più disastrosi del Palazzo Rai, sia come presenze fisiche, sia per la scarsità dei mezzi audiovisivi che vi contiene. La disponibilità del suddetto ufficio è assoluta. Capita infatti di incontrare nella stanza vecchi amici, ex collaboratori Rai, pittori illustri, aspiranti giornalisti, comparse della Tv, uscieri, reduci del ’15-’18, spogliarelliste e via dicendo. La domenica è il giorno di punta, proprio come accade negli ospedali per le visite ai malati.”