I Signori della notte [ALlibri]

La sinistra alessandrina strumentalizza Umberto Eco...e intanto dimentica Delmo Maestri CorriereAl 1A cura di Angelo Marenzana

 

 

Oggi è il giorno dell’esaltazione dei candidati alle elezioni politiche tra contratti con gli italiani, promesse, fake news e programmi dal malinconico sapore vintage. Come contributo a queste ore di festa, su ALLibri ho scelto di indagare il brodo di coltura in cui si è formato alla politica una parte di coloro che supereranno l’esame del voto. Ovvero il mondo dei Vampiri. Loro, le affascinanti figure dell’immaginario popolare di cui in Italia si è parlato troppo poco, creature avvolte dal manto nero, dal buio e dalle tenebre più fitte. I Vampiri succhiasangue, succhiatalento, succhiasogni. Di quante specie ne esistono? Sicuramente ognuno di noi ne avrà incontrato almeno uno nel corso della propria esistenza. Esseri pronti a succhiare le energie al prossimo, nella vita privata come nel mondo del lavoro, nella devastazione del nostro ambiente circostante, tra burocrati ossessivi e speculatori del mattone quanto delle finanze.

Con l’antologia I signori della Notte (curata da Luca Raimondi per Morellini Editore) i quindici autori presenti (a firma dei quattordici racconti) si sono cimentati per raccontarci la vita e l’atmosfera di un angolo sempre diverso di Italia, dalle fumose metropoli industriali alle campagne toscane, dalle vallate montane alle cittadine sul mare meridionale. Tra vicoli, piazze storiche, coste e alture si aggirano vampiri simpatici quanto terrificanti, distinti o scanzonati, sentimentali, languidi, spietati. Compaiono con i loro canini acuminati per succhiare il nostro sangue, per popolare i nostri incubi ma anche per farci riflettere sulla bellezza della vita e del Paese in cui viviamo sempre in bilico tra ingiustizie e prepotenze.

Tra i vari autori presenti nel volume (ricordo tra gli altri solo i nomi di Danilo Arona che con ALLibri gioca in casa e quello di Nicola Lombardi già gradito ospite di alcune settimane fa) abbiamo scelto Giuseppe Maresca a rappresentare I Signori della Notte con il racconto Alice oltre lo specchio.

 

Alice oltre lo specchioI Signori della notte [ALlibri] CorriereAl

 

di Giuseppe Maresca

 

Ardo parlare con lo spirito di un vecchio amante, morto prima che nascesse il dio dell’amore. John Donne, Divinità d’amore 

Se Alice rompesse lo specchio, tutti i suoi incubi le salterebbero addosso. Virginia Woolf

 

 

“No, questo non è proprio il Giardino delle Meraviglie!” pensò Giulietta scendendo dalla macchina e chiudendo a chiave la portiera.

Il Giardino delle Meraviglie. Quello era il nome con cui era solita chiamare Catania quando fantasticava sulla vita di città nei suoi sogni sfrenati da adolescente piena di fantasia, rinchiusa in uno squallido paesino dell’entroterra siciliano. Il Giardino delle Meraviglie, a metà tra il bizzarro e sconvolgente mondo alla rovescia in cui piombava l’Alice di Carroll e l’intrigante giardino dai colori sgargianti del dipinto centrale che componeva il trittico di Bosch. Peccato che invece il quartiere era buio e puzzava di immondizia, i palazzoni fatiscenti a ridosso del porto emanavano un tanfo di polvere e muffa e le scritte oscene dei ragazzacci e degli ultras sui muri completavano la scenografia. Eccolo qui, il Giardino delle Meraviglie. Iscriversi finalmente all’università le era sembrata la chiave di accesso a un mondo da sogno: la facoltà piena di gente ogni mattina, i seminari, i caffè concerto con tanta musica la sera, i cineclub, le librerie, nulla assomigliava a quello che aveva lasciato in paese, alla campagna riarsa e ai ragazzi volgari che sedevano sempre al bar e che avevano come massima aspirazione quella di arruolarsi nell’esercito. Proprio il Giardino delle Meraviglie; ma per Giulietta, che bramava solo di inseguire i suoi sogni diventando una saggia letterata (e perché no, forse una scrittrice come quella Elsa Morante letta alle scuole superiori), Catania si era rivelata una trappola mortale, la parte infernale del Giardino di Bosch, una donna dal vestito bellissimo ma vecchia e laida sotto di esso. La ragazza ci aveva messo un po’ a capire come funzionavano le cose in una grande città, ma quando l’aveva scoperto non le era piaciuto. Grandi aspettative, Giulietta. E grandi delusioni.

Nel suo percorso di studi di cose ne aveva imparate: aveva conosciuto l’invidia, l’egoismo e la falsità, preziosi doni dei suoi colleghi, aveva diviso appartamenti con altre studentesse tra liti e maldicenze, aveva fatto l’alba su libri noiosissimi e nottate vuote in buie discoteche. Aveva pianto, aveva lottato, aveva tirato spesso la cinghia per non chiedere denaro ai suoi, ma alla fine aveva raggiunto il suo traguardo. E per cosa? Il mondo del lavoro si era rivelato estremamente amaro, se non avevi qualche aggancio (di qualsiasi natura) la laurea era carta straccia. Aveva conosciuto tutta l’umanità variegata di cui quella grande città era piena, un bestiario della banalità che avrebbe fatto inorridire pure lo stesso pittore fiammingo che la incuriosiva così tanto da ragazzina: dall’intellettuale sfigato al borghese finto alternativo, dal figlio di papà al figlio di puttana, da quelli la cui vita era scandita dagli intervalli di tempo tra una canna e l’altra (quando andava bene, sennò era roba più pesante) a quelli col sorriso fisso da iena e con amicizie in tutti gli ambienti che pareva non avessero mai un problema; e poi, ragazze arriviste disposte a tutto pur di far carriera, pseudo-musicisti rock falliti, artisti e poeti (!?) cialtroni e tutti i mostri generati dal “sonno della ragione” di una città decadente in cui una brava ragazza di paese cresciuta a pane, sogni e sacrifici può imbattersi.

Cupido poi, con lei si era rivelato più cieco di Stevie Wonder e più crudele di Gilles De Rais, e anche la cornucopia della fortuna in realtà non era stata altro che un ingannevole vaso di Pandora: Angelo, il suo Angioletto come lo chiamava lei, tanto timido, con una gran fame di libri strani, sempre a parlare di tutto ciò che faceva cultura, era stato il suo pilastro in quella giungla. Parlava Angelo, parlava… E parlava. Tante bellissime parole… Ma il problema era proprio questo: parlava e basta, quasi sempre di sé, egocentrico al massimo e incapace di capire gli stati d’animo di Giulietta; molte parole ma tutte bugie, tanto che dopo tre anni, la prima e unica volta in cui Angelo forse era stato sincero era quando le aveva comunicato che avrebbe seguito la sua carriera lontano da Catania, incurante dei problemi e dei progetti di Giulietta. Semplice e freddo… E per una volta sintetico.

Il fatto è che quasi tutti i maschi non sanno ascoltare, se hanno bisogno di compagnia ti riempiono di complimenti e di lusinghe, poi come i lupi mannari (anche senza luna piena) tirano fuori zanne e artigli per far di te un sol boccone sanguinolento. Eppure Marinella, la sua amica del cuore, che aveva fatto carriera all’università e stava con un medico (che a Giulietta non era mai piaciuto) le diceva sempre che se continuava così sarebbe rimasta zitella, che avrebbe dovuto vivere più coi piedi sulla terra, essere meno timida e meno chiusa, e finirla di pretendere l’impossibile: secondo l’amica, finché Giulietta si fosse aspettata dagli altri quello che dava lei, non avrebbe concluso molto nella vita.

E pensare che i suoi l’avevano pure chiamata Giulietta (non Giulia, attenzione, proprio Giulietta, come la romantica protagonista dell’opera di Shakespeare… Chissà la faccia del vecchio don Enzo quando aveva dovuto battezzarla), perché ovviamente loro Shakespeare non l’avevano letto, e nella loro ignoranza avevano sempre creduto che Giulietta fosse la principessa di una favola a lieto fine che alla fine avrebbe sposato Romeo e sarebbe vissuta felice e contenta in chissà quale palazzo dorato che esisteva solo nella loro fantasia; questa cosa l’aveva sempre imbarazzata, tanto che si presentava spesso come Giulia, ma quando le persone venivano a sapere il suo vero nome si immaginava le risate che si sarebbero fatti alle sue spalle; proprio una bella fortuna. Della bella dama veronese sentiva più che altro di condividere la sfiga, con la differenza che se non altro la Giulietta decantata dall’eccelso scrittore inglese prima della tragedia aveva avuto il suo bel Romeo a prometterle amore eterno. Le uniche promesse che lei invece era riuscita a ottenere erano quelle dei beoni del bar dietro l’angolo, che non mancavano di ricordarle quanto sarebbero stati felici di portarsela a letto.

Dopo la laurea l’unico posto in cui poteva permettersi di vivere era un appartamentino di tre stanze nel cuore storico della città, in un palazzone quasi in rovina che ai tempi di De Roberto però doveva essere stato un palazzo aristocratico, tra il mercato del pesce e la piazza del Duomo, che di mattina sembrava il suq di Marrakech.

Oggi era abitato per lo più da extracomunitari e da famiglie povere. Che delusione per i suoi, che si erano spaccati la schiena per mantenerla decorosamente e non farle sentire differenze economiche con gli altri studenti. Che delusione per lei, che aveva sperato di potersi meritare una casa modesta ma vera, un rifugio da tutto quello sconsolante degrado.

Iniziò a percorrere i cinque metri che la separavano dal portone di casa, la serata in birreria con le vecchie amiche dell’università era stata deludente, come del resto la sua ultima relazione con un tipo piuttosto anonimo. Forse si chiamava Michele, o Roberto, di lui ricordava solo che quando lei aveva avuto bisogno d’aiuto, non c’era stato.

C’erano altri enigmi, forse, che bisognava risolvere per arrivare alla sua dimora. Un cruciverba per esempio, la cui soluzione avrebbe aperto il giardino del Paradiso; o un puzzle, che una volta completato avrebbe indicato l’accesso al Paese delle Meraviglie. Avrebbe aspettato, come sempre aveva fatto, nella speranza che un giorno le si presentasse l’enigma giusto. Ma se quel momento non fosse giunto, non si sarebbe afflitta più che tanto, perché forse, rimettere insieme i pezzi di un cuore spezzato è un enigma che né il tempo, né l’ingegno hanno la capacità di risolvere.

Chi aveva detto questa frase? Ah, sì, quello scrittore inglese omosessuale di romanzi dell’orrore… Clive Barker; piaceva tanto ad Angelo, ma a quanto pare non ne aveva poi capito molto. Una macchina dei carabinieri nascosta nel buio partì a sirene spiegate con un lugubre stridio di pneumatici… Mai piaciuti quelli: boriosi, volgari e vigliacchi. Percorse lentamente la strada buia, la serata di gennaio era terribilmente fredda, cercò a tastoni le chiavi nella borsa e pensò che quello non era proprio un bel quartiere… Le aggressioni e gli scippi erano all’ordine del giorno, figuriamoci di notte col buio.

«Ma sì… chissenefrega! In culo a tutti!» mormorò a denti stretti sentendo prossime le lacrime. Serata di bilanci, cara Giulietta, nessuno si accorge che hai anche un cuore e un cervello e non solo la passera (sulle tette soprassediamo…), se avesse dovuto finire lì forse non sarebbe stata una gran perdita. Inserì le chiavi nella toppa del portone, ma si arrestò sentendo un flebile lamento alla sua sinistra; più per la curiosità che per altro, si avvicinò al cumulo di rifiuti poco distante dal quale proveniva. Sul momento pensò a dei gatti in amore, ma quel suono aveva qualcosa di umano e infinitamente sofferente; si chinò sulla spazzatura e vide che vi spuntava un braccio femminile molto esile. Scostò i sacchi neri e lucidi e ciò che vide la atterrì: una ragazza dai capelli scuri era riversa al suolo tra l’immondizia e si lamentava flebilmente. Forse la vittima di un’aggressione, o una tossica, ma non presentava né segni di ferite né buchi alle braccia. Superato lo shock Giulietta cercò di illuminarla col cellulare, ma la luce era troppo poca, così iniziò a comporre il 112, quando all’improvviso il braccio della ragazza parve rianimarsi e la mano esile le bloccò il polso con una stretta d’acciaio. «Aiutami» le sussurrò.

«Sì, sto chiamando aiuto… Ti hanno aggredita? Stai male?»

«No… Ti prego, non chiamare nessuno… Ho solo bisogno di non restare fuori stanotte… Aiutami, ti prego» sussurrò.

«Ma io non posso lasciarti in questo stato senza sapere cos’hai, non sono un medico e nemmeno un soccorritore» rispose quasi spazientita Giulietta.

«E poi, senti un po’, perché dovrei farti salire? Ti trovo riversa nella spazzatura, conciata Dio solo sa come e tu mi chiedi di farti salire a casa mia?»

«Perché so che anche per te le notti sono fredde e piene di promesse d’amore che rivolgi a un vuoto grande come il mare buio che vedi qui di fronte… Hai sempre dato prima di ricevere, spesso senza chiedere nulla in cambio… Te lo leggo nella voce. Io so cosa c’è di esplorabile nel mare delle tenebre perché ci ho navigato da quando sono nata… Aiutami, e lo affronteremo insieme.»

Giulietta non ci aveva capito molto. O almeno così credeva. Eppure per qualche motivo sentiva che quelle parole avevano mosso qualcosa nelle profondità della sua anima. L’istinto le suggeriva di chiamare qualcuno, poi la sua empatia e forse i residui di un’educazione cattolica ricevuta sin da piccola ebbero il sopravvento: del resto l’anno scorso aveva fatto volontariato in un centro accoglienza per extracomunitari e clochard. Il mare delle tenebre… Questa era bella, sembrava la frase di un poeta, forse l’aveva già sentita, ma non riusciva a ricordare dove, eppure era proprio quello che si sentiva dentro in quel momento.

«E va bene» sospirò. «Ti va di salire da me? Starai un po’ al caldo e dovrei avere qualcosa da mangiare… Come ti chiami?»

«Alice!» sorrise debolmente la ragazza mentre Giulietta la aiutava a rialzarsi. Mentre la sosteneva a spalla lungo le scale dai muri scrostati dei pianerottoli, Giulietta osservò come la ragazza avesse la sua stessa corporatura: magra (forse più abbondante di seno, non poté fare a meno di notare con una punta d’invidia), non troppo alta e coi capelli neri.

L’appartamento era in uno stato pietoso, disordine ovunque, ma Alice osservò tutto con estrema cura e attenzione, come se anche il suppellettile più comune fosse una cosa nuova e meravigliosa. Poi fece una doccia e indossò una maglietta e delle mutandine pulite di Giulietta, mentre lei metteva in tavola quel minimo che aveva trovato in frigo, cioè un bricco di latte, del tacchino affettato e una piadina al formaggio. «Ti va se metto della musica mentre mangi? Io lo faccio spesso… Aiuta a sentirsi meno soli e più a proprio agio.»

Alice annuì e Giulietta accese la radio e le note dei Noir Désir, Le vent nous portera si sparsero piacevolmente nel piccolo appartamento. L’altra attaccò a mangiare, riluttante.

«Allora Alice, mi vuoi dire che ti è successo? Da dove vieni, sei di qui?»

Giulietta osservò meglio la sua ospite: era bella, di una bellezza strana però, capelli neri all’altezza delle spalle, corpo ben fatto, pallida in maniera quasi innaturale ma dai lineamenti selvaggi; più bella di lei, anche se a lei Salvatore, proprio quel Salvatore di Giurisprudenza che assomigliava a Helmut Berger, aveva detto che possedeva la faccia della segretaria con quegli occhialini e quel viso affusolato.

«Ho perso la strada del Giardino delle Meraviglie… C’erano i gatti» fece la ragazza con aria allucinata, alzando di poco la voce nel pronunciare l’ultima parola.

«Gatti? Non ti seguo scusa… Cos’è il Giardino delle Meraviglie? Hai mica preso qualche pasticca?» chiese Giulietta preoccupata.

«Pasticche? No, non mi faccio… Tu devi soffrire molto, hai una bella anima, ti prego, non lasciarmi prendere dai gatti…»

«Scusa, ma cosa c’entrano i gatti?»

La ragazza si fece scura in volto: «Non posso soffrirli, sono allergica al loro odore e ai loro artigli. I gatti cacciano i topi e chi si annida nell’oscurità… Pensi di essere al sicuro nel buio, pensi di essere salva, nessuno riuscirà a vederti, e invece il riverbero di quegli occhiacci… Maledetti gatti, maledetti e veloci… E io sono troppo spesso troppo debole…»

Giulietta si abbandonò a una veloce considerazione: non ci capiva mai un fico secco quando parlava questa ragazza. Eppure, tra i deliranti vaneggiamenti che componevano le risposte di Alice, c’era sempre qualcosa che aveva il potere di pizzicarle le corde del suo io più segreto e interiore, quell’io cosi tante volte calpestato e umiliato dalla vita, dall’amore, dalla speranza. Quella strana sensazione però più che piacerle le raggelava il sangue nelle vene.

Come se non bastasse, di persone che avevano paura dei cani ne aveva conosciute parecchie (e non li comprendeva lo stesso), ma questa paura dei gatti le sembrava parecchio bizzarra. Alice sicuramente era strana, e quindi per proprietà transitiva doveva avere anche strane fobie.

“Tutto ciò è surreale, questa situazione, questa conversazione, ha dei connotati surreali” pensò Giulietta quasi maledicendo il suo spirito di samaritana e la sua paura della solitudine; per carità, la ragazza sembrava debole e innocua, ma pian piano diventava pesante dover parlare con una schizzata. La sua solita fortuna.

«Cosa ti fa pensare che io soffra?» chiese Giulietta quasi piccata.

«Gli occhi» disse Alice indicando i propri con un gesto largo della mano. «Hai lo sguardo di chi ha il Giardino delle Meraviglie nel cuore ma non riesce a ritrovare la strada per tornarci…»

Il Giardino delle Meraviglie. Lei come faceva a sapere… Si sentì rabbrividire. Possibile che quella ragazza fosse capace di leggerle l’anima e arrivare nell’intimo dei suoi segreti più nascosti? La cosa la metteva a disagio.

«Senti Alice, è da quando sei entrata qui dentro che non fai altro che parlare di questo Giardino delle Meraviglie… Adesso mi spieghi cos’è?»

«È un posto dove ti perdonano tutto, dove puoi trovare tutto l’amore che cerchi senza dover dare nulla in cambio e dove non esistono regole o morali che limitano i sentimenti.»

«E dove si trova secondo te questo Giardino?»

«A cavallo dell’Arcobaleno, dove puoi arrivare solo se ti spogli dalle delusioni e dalle cose futili che ti impediscono di raggiungere quello che vorresti.»

«Facile a dirsi» commentò in modo paziente Giulietta.

Intanto dalla radio Mia Martini aveva iniziato a cantare Minuetto. Giulietta stava per rispondere, quando una goccia imporporò il bianco del bicchiere di latte di Alice; poi un’altra e un’altra ancora. Sangue. Dal naso di Alice. Giulietta si alzò di scatto per soccorrere la ragazza.

Alice si tamponò il naso e tirò indietro la testa. «Non è niente… Mi succede spesso quando sono debole.»

«Senti, io credo che tu sia stanca, il mio divano è comodo, se ti va stanotte rimani qui, poi domattina se vuoi ti accompagno da un medico.»

«Grazie… Sei una brava e bella ragazza, proprio come quelle delle favole… Non mi sono sbagliata, presto ti farò un regalo» mormorò Alice avvicinandosi e facendole una carezza tra i capelli.

«Grazie ma non ce n’è bisogno, per ora riposati.» Al piano di sotto il piccolo dei Murè, una famiglia di pescatori, aveva iniziato a piangere sonoramente. Le prese una coperta, sistemò il divano a mo’ di letto e con una certa inquietudine, dopo aver fatto stendere la ragazza, andò a dormire.

Giulietta sognò dell’acqua. Dapprima ebbe l’impressione che piovesse, poi che un flusso inarrestabile scorresse giù dallo scarico del lavandino. “Ormai non si distingue più il cesso dal resto delle stanze” pensò ironicamente nel sogno.

Ma era un sogno dolce, l’acqua scorreva producendo un rumore confortevole e rassicurante. Poi divenne torbida, un getto scuro color porpora si mescolò al flusso più limpido sullo smalto sbiadito del lavandino e lungo lo scolo. Dei colpi sordi, da lontano, come latrati, no, non latrati, colpi di tosse. Giulietta si svegliò di soprassalto. Il rumore dell’acqua era sparito, ma i colpi di tosse erano reali e provenivano dal soggiorno.

Alice.

Incurante di indossare solo una leggerissima sottoveste si precipitò nella stanza principale. La ragazza era rannicchiata sul divano e tossiva forte. Giulietta le si avvicinò premurosamente. Alice dopo un paio di colpi di tosse l’abbracciò.

«Ehi Ali… Cosa c’è? Vuoi che chiami subito il medico?» Alice aveva gli occhi bagnati di lacrime. «Non è niente… Mi capita spesso quando c’è freddo e quando incontro i gatti.» Un sottilissimo rivolo di sangue le fluiva dal lato sinistro della bocca.

«Ma qui non ci sono gatti» le sorrise Giulietta «e tu perdi sangue di nuovo!». Con delicatezza le pulì il rivoletto che le spuntava dalla bocca. Stava cominciando a preoccuparsi seriamente. Se quella ragazza svampita aveva passato diverse notti all’aperto tra cumuli di spazzatura, topi di fogna e sudiciume, quello poteva essere il manifestarsi di una bella infezione in stadio avanzato. Le vennero le lacrime agli occhi. Improvvisamente sentì di tenere a quella ragazza in un modo fuori dal comune. Voleva proteggerla dai gatti, voleva che smettesse di sanguinare, che l’acqua smettesse di scorrere sullo sfondo, voleva che trovassero insieme la strada per il Giardino delle Meraviglie. Sentì una grande pesantezza addosso e un putrido sapore di amarezza salirle dalle viscere fino in gola. Alice languidamente le tenne la mano e in maniera delicata ne baciò il palmo. Poi, con altrettanta tenerezza, si avvicinò a Giulietta e le posò delicatamente le labbra sulle sue. Fu come una scossa elettrica: aveva il sapore di tutti i mille profumi che l’avevano inebriata nel corso della sua vita e ubriacava come il più dolce dei vini pregiati.

«Ehi» protestò Giulietta, «ma cosa fai, guarda che io non…»

Alice lievemente le posò l’indice sulle labbra per zittirla. «Ami?» le sussurrò.

La domanda spiazzò Giulietta. «Cosa?» farfugliò.

«Non dire niente» continuò Alice baciandola con tenerezza. «Tu sei stata buona con me, hai il cuore troppo grande e lo spirito troppo puro per questo posto… Lascia che ti porti nel Giardino delle Meraviglie. È li che vuoi andare non è vero? È sempre stato lì che sei voluta andare. Non ci sono gatti, nel Giardino delle Meraviglie. Non ci sono neanche topi, rifiuti materiali e rifiuti umani, non puoi essere lo scarto di una società che non ti vuole. Di un amore che di te se ne frega. Giulietta. Dietro l’angolo c’è sempre un felino pronto a scattare più veloce di te, artigliarti il polso e sottrarti la misera lisca di pesce che avevi racimolato con tanta fatica. Giulietta. Dei gatti bisogna aver paura, dai retta a me. Giura che mi ami, e io ti porterò con me nell’unico posto in cui tutto questo può avere una fine.»

“Io giuro il mio amore sulla luna” pensò Giulietta; era la frase pronunciata da Romeo nel dramma che portava il suo nome, e adesso lei non poteva fare a meno di quel bacio che sentiva di legarla a qualcosa di indissolubile e che col suo sapore le apriva un mondo fantastico di emozioni di cui nella vita aveva avuto solo sentore.

Alice adagiò Giulietta sul divano e le fece scivolare via la sottoveste. Fece scorrere sui suoi piccoli seni le dita come mai nessuno aveva fatto, con grazia e delicatezza come se conoscesse ogni millimetro della sua pelle.

«Ma come… Perché… Io non so se…» mugolò Giulietta travolta da un misto di piacere e repulsione.

«Perché ti amo» mormorò Alice, «e la mia maledizione sin dall’alba dei tempi è questa, nutrirmi del sangue e dei sogni di chi ha perso la strada, amarli ma essere condannata lo stesso alla solitudine, a vagare per sempre in questo mondo… Con te però è diverso, tu hai un animo sensibile ed è per questo che con te sarò dolce. Adesso io sono te e tu sei me».

Giulietta non era per niente sicura di ciò che le stava accadendo, ma forse in fondo non le importava: non aveva mai incontrato nessuno che l’avesse solo minimamente sfiorata come Alice, con lo stesso trasporto e la stessa dolcezza. “Io sono te e tu sei me” pensò, c’era qualcosa di magico nei baci di quella ragazza, qualcosa che andava oltre l’umano, come se quella bocca che le esplorava il collo e l’incavo dei seni volesse assorbirla. Era troppo vicina all’estasi da non accorgersi che nel frattempo la fisionomia di Alice era cambiata, le due arcate dentarie le erano uscite in avanti come spinte dall’interno della bocca verso l’esterno delle labbra in maniera orribile, il volto, pur nella sua bellezza, aveva assunto un aspetto ferino, e le dita che la carezzavano ovunque, dentro e fuori, si erano allungate in maniera grottesca. La bocca di Alice continuava lo stesso a lambire il collo di Giulietta, che rapita in quel vortice quasi non badò ai denti dell’altra che si chiusero sulla sua giugulare. Fu un attimo di paura e dolore, poi la lingua di Alice cominciò a leccare amorevolmente il sangue, mentre un fiotto scuro iniziò a scorrere sul petto di Giulietta e sulla tappezzeria bianca del divano.

“Strano” pensò Giulietta girando la testa verso la finestra mentre l’altra le succhiava il sangue, tra spruzzi vermigli che macchiavano ovunque. “Ti pareva che l’unica parvenza di amore che mi è toccata in sorte è anche ciò che mi uccide. Oh, ma sono nata proprio sotto una buona stella. Ottima annata. Giorno ideale. Momento perfetto. È andata così. Sento solo un po’ di freddo, ma stasera la luna non mi è mai parsa tanto bella… Mi sa che sto per morire, dicono che quando accade si rivede tutta la vita come in un film al contrario… Invece io riesco a vedere finalmente i colori che ci sono nel cielo notturno, e il Giardino delle Meraviglie che si trova sulla luna.” Vide sulla luna tramonti autunnali imporporati di sole su foreste dai colori scuri, vide giornate estive su un’immensa spiaggia desolata dove cavalloni spumeggianti si frangevano continuamente sulla battigia con una musica ritmica che faceva da sfondo agli altri suoni dell’oceano, vide pomeriggi d’inverno passati a osservare la neve che copriva col suo sudario ogni parte della natura dando un senso di fredda melanconia, vide la luce primaverile che scopre col suo calore il risveglio della vita, ma soprattutto sentì per ogni sequenza una voce lontana che per ogni immagine la chiamava “amore”, e che le faceva mille promesse di fedeltà e di rispetto che non aveva mai sentito pronunciate in maniera così dolce e veritiera da labbra umane. Poi avvertì una mano carezzarle gradevolmente il viso, ricambiò la carezza, sorrise, e chiuse gli occhi.

Al mattino Alice si alzò tardi, non aveva recuperato del tutto il suo aspetto umano, i denti ancora fuoriuscivano in maniera mostruosa. Si lavò e si cambiò con gli abiti di Giulietta,ma come succede sempre a quelli della sua specie purtroppo gli specchi non riflettevano la sua immagine; era davvero triste esistere e non essersi mai potuta guardare, non conoscere il proprio aspetto, essere visibile a tutti tranne che a se stessi; l’unico modo che Alice conosceva per averne una minima percezione era attraverso l’amore delle sue vittime, così per rabbia li ruppe tutti quanti. Proprio una fortuna era stata incontrare Giulietta: quei maledetti gatti, da sempre nemici della sua specie, l’avevano sorpresa in quel vicoletto buio vicino al porto, dove se avesse aggredito qualcuno e si fosse nutrita come era suo solito fare, nessuno sarebbe intervenuto e il suo “peccato” sarebbe stato scoperto chissà quando. E poi gli abitanti del porto non sono gente curiosa: anche se avessero sentito gridare, non sarebbero intervenuti neanche a pagarli a peso d’oro. Del resto quella era una zona malfamata. L’unica cosa che Alice non aveva previsto, erano i fottuti randagi, davvero troppi in quella zona, i quali appena avevano avvertito la sua presenza le si erano scagliati contro per quell’innato sesto senso che avevano nelle vibrisse e che li spingeva a odiare quelli della sua razza. Croci, aglio, sole, acqua benedetta… Tutte cazzate da film: ci vuole un predatore per farne a pezzi un altro, e quelli come lei avevano imparato a caro prezzo che vuol dire un branco di gatti i cui artigli sono peggio di un rasoio intinto nell’acido.

Quando fu sicura che il suo aspetto era tornato normale, si avvicinò al corpo di Giulietta ormai freddo sul divano, le posò un bacio sulla fronte e uscì nella gelida giornata invernale confondendosi tra il fiume di volti della gente che frettolosamente scorreva nella piazza del Duomo e il caos livido dei colori del mercato del pesce.

Tre giorni dopo quelli della Mobile, facendo saltare la serratura con un colpo di pistola, fecero irruzione nell’appartamento di Giulietta chiamati da una telefonata dei vicini che si lamentavano per il fetore. L’ispettore Venturin però aveva altri problemi in quel momento: quando era giunta la segnalazione, lui era con la dottoressa Morselli, il sostituto procuratore, che gli chiedeva una “prestazione particolare” che quel “verme moscio di suo marito” (spettabile dirigente bancario) non era in grado di fornire… Purtroppo la moglie di Venturin era medico legale, e l’ispettore le aveva detto che era fuori in servizio (ma non specificando accuratamente il tipo di servizio).Così uno sprovveduto piantone aveva telefonato a casa del sottufficiale pensando di prendere due piccioni con una fava, ma quando la moglie di Venturin era caduta dalle nuvole asserendo con convinzione che il marito fosse in Questura e di controllare bene l’ordine di servizio, lui aveva risposto con un deciso diniego. Venturin era un uomo tutto d’un pezzo: era per l’ordine e la disciplina sia sul lavoro che nel privato: il matrimonio era un patto vantaggioso in cui lui rappresentava la sicurezza e la stabilità e la ben remunerata moglie la pecunia da coccolare, vezzeggiare, salvaguardare. Da quando si erano sposati, aveva sempre trattato la legittima consorte come una bambola pechinese, un bel soprammobile da esibire in pubblico e alla festa della Polizia. Mentre scendeva dall’auto di servizio e si incamminava lungo le scale che portavano all’appartamento segnalato, rifletteva che in quindici anni di matrimonio non aveva mai detto “Ti amo” a sua moglie… In fin dei conti riteneva che non ce ne fosse mai stato motivo, né gli pareva di averne mai sentito il bisogno. Amare a quanto ne sapeva lui portava solo un sacco di guai e pochi vantaggi.

Il primo a entrare era stato Zoccheddu, che aveva fatto irruzione nell’appartamento come Rambo in un accampamento di Viet Cong, ma ora stava gorgheggiando jodel di bile sulla porcellana del cesso. Giulietta era ancora sul divano, circondata da larghe macchie di sangue rappreso: la pelle aveva già assunto un colorito bluastro e il tanfo di morte pervadeva l’aria chiusa del piccolo appartamento. L’agente Morcisi si avvicinò a Venturin. «Ispettò, ch’aggià fa… chiamo o’ medico legale?»

«Non prima che io me ne sia andato» mormorò Venturin.

«Ispettò» insistette il poliziotto, «come le ultime quattro in tre mesi? È nu serial killer come quelli d’a televisione? Quelli di Retequattro?»

«Ma che cazzo vuoi che ne sappia… Cristo, io li odio questi bastardi!» Poi guardando meglio con aria indagatrice richiamò l’agente: «Morcì… Non noti qualcosa di strano?»

«Cosa ispettò… Che la guagliona è morta da

«Ma no cretino… Hai mai visto un sorriso più sereno in qualcuno morto in maniera violenta?»

Morcisi si strinse nelle spalle con fare distratto.

I’ sacc’ ’sti cazzi!” voleva rispondere, ma non lo fece… A Venturin giravano male quella mattina. Aprì una finestra, l’aria gelida della città coi suoi veleni non proprio da Giardino delle Delizie entrarono nell’appartamento di Giulietta. Fortunatamente, lei era già lontana.