Quella sbornia in compagnia di David, e poi Lui…Bill Viola…[ALlibri]

La sinistra alessandrina strumentalizza Umberto Eco...e intanto dimentica Delmo Maestri CorriereAl 1A cura di Angelo Marenzana

 

 

Vive a Roma, Massimo Pallottino, l’autore ospite nella pagina di questa domenica di ALLibri. Originario di uno splendido territorio quale Rionero in Vulture, esordisce nel campo della narrativa noir con il romanzo Io aspetto nel buio, seguito da Un rebus per uccidere, entrambi pubblicati dalla casa editrice PeQuod. Nel 2012 viene dato alle stampe Nell’anno della sindrome di Rhee  (Ed. Ensemble). Alcuni suoi racconti sono stati inseriti in tre diverse antologie sempre edite da Ensemble tra cui il testo proposto oggi, Quella sbornia in compagnia di David, e poi Lui…Bill Viola… un autentico collage di emozioni provocate dalle atmosfere più inquiete e al tempo stesso soavi del mondo dell’arte.

 

 

Quella sbornia in compagnia di David, e poi Lui…Bill Viola…Quella sbornia in compagnia di David, e poi Lui…Bill Viola…[ALlibri] CorriereAl

 

di Massimo Pallottino

 

Forse non saprete chi è Bill Viola. E molto probabilmente vi uscirà dalle labbra una mezza smorfia di reattiva indifferenza appena ve ne metterò al corrente: d’altronde è il destino di artisti anche di gran talento essere accolti in questo modo: un’accoglienza purtroppo decisamente sottotono o quantomeno poco calorosa. Sapere che esistono e come si chiamano sono “informazioni che girano a vuoto nel cervello dei più per un milionesimo di secondo senza lasciar traccia o gettare il seme di un ricordo” come ripete il mio amico irlandese David dalla pelata e l’espressione comicamente esterrefatta alla Louis de Funès (mi ricorda tanto l’attore francese) nella sua tiritera pro artisti semisconosciuti o peggio ancora misconosciuti. Lui che nel bel mezzo di una colossale sbornia a base di Smithwick’s tracannata a volontà in un pub di Limerick, la sua città, dove andai a fargli visita nel luglio del 2006, se ne esce di punto in bianco facendo il nome di un certo Bill Viola. Eccolo!, ho esclamato tra me appena udivo questo nome come scoccato da un lampo di momentanea lucidità di David alle dieci e tre quarti passate da un minuto – subito ho sbirciato lo Swatch che portavo al polso per controllare l’ora, vezzo che dai dieci anni in poi mi viene spontaneo quando m’imbatto in un’informazione che non mi suona indifferente come tutte le altre: in questo caso il nome, maledettamente intrigante solo a sentirne la pronuncia – e probabilmente perché allora,

 

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appena diciottenne, ero spasmodicamente alla ricerca di un indirizzo da dare alla mia vita; avevo da poco concluso il liceo artistico e qualcosa d’artistico o di dilettevolmente immaginoso avrei voluto combinarlo per guadagnarmi da vivere, sì, ma che  cosa?… “Di arte non si campa” seguita a ricordarmi instancabilmente mio padre, che negli ultimi tempi però non mi pare molto in vena di farmi la sua solita e bella ramanzina; piuttosto si diverte a recitare il suo proclama come un mantra in quei momenti in cui è convinto di leggermi infallibilmente nel pensiero, allorché disteso supino sul divano e con la nuca poggiata su un bracciolo devo trasmettergli effettivamente l’impressione di rimuginare per l’ennesima volta sulla proiezione del mio “io da grande”.

E allora?, – tuona ironico e simpaticamente sfottente come solo mio padre sa esserlo – Musicista o pittore? Scrittore o regista? Scultore o disegnatore di fumetti?..” Non gli rispondo, mi limito ad abbassare le palpebre, e la mia faccia dev’essere quella di chi è sprofondato nella sua interminabile ricerca di un’identità artistica o presunta tale sforzandosi ancora d’agguantarla, anche se la risposta dentro di me ce l’ho: Bill Viola. La mia salvezza. Quel signore col pizzetto corto e curato e l’aria intellettualmente impegnata, che mi ha tirato fuori dall’impasse di non sapere quale fosse la mia strada. A farla corta, il mio tormentato nonché agognato punto d’approdo – anche se, torno a ripetere, molti di voi forse ignoreranno di chi sto parlando.

Ad ogni modo, Bill Viola è uno dei massimi esponenti al mondo nel campo della Videoarte. Ed è grazie alla sua scoperta per merito di David che me ne ha parlato per la prima volta, se in questo afoso pomeriggio del venti d’agosto mi accingo a presentare in pubblico il mio primo video (il tutto preceduto da una marea di dubbi e dall’interrogativo che mi ha assillato per parecchi giorni “ma poi riuscirò mai ad avere un mio pubblico?) a Senigallia, ridente stazione balneare delle Marche, grazie all’interessamento di un mio cugino che vive qui ed è tra i promotori di una rassegna di eventi culturali che vi si svolge in estate. Vi confesso che man mano che s’avvicina il momento in cui si spegneranno le luci e le prime immagini partiranno sullo schermo, manca sì e no una mezz’ora ma non di più, sento crescere dentro di me una soffocante sensazione di paura. Sarà la paura dell’esordio, mi dico, e a tratti mi sembra di prendere coraggio.

Ma poi quando l’ondata di paura la sento ribollire tutta nella pelle – e adesso debbo confessarvi che a più riprese non ho potuto fare a meno di voltarmi indietro e con l’immaginazione figurarmi che tra il mio pubblico vi fosse nientemeno che Bill Viola, con una giacca nera adorna di lustrini e uno sgargiante papillon rosso papavero, proprio lui in persona, in attesa di giudicare il mio lavoro, e immancabilmente ogni volta che la mia immaginazione ha disegnato nella mente la sua faccia un brivido di gelo mi è corso lungo la schiena – rompo gl’indugi e mi rivolgo ad Enrico, il ragazzo albino addetto all’impianto d’amplificazione.

“Fai partire Wim Mertens.”, – gli dico – Chissà che la musica attiri un po’ di gente.” Gli nascondo in realtà la mia paura. O meglio ho pudore di esternargliela. E intanto sta di fatto che sono ancora in pochi, a contarli in tutto una dozzina, e più ragazze che maschi, all’interno dell’ampio spiazzo debolmente illuminato dai fari gialli e azzurri del palco dov’è stato sistemato lo schermo sul quale verrà proiettato il mio video. Spero intensamente che il pianoforte di Wim Mertens riesca a dissipare la mia paura – poco prima di recarmi in chiesa per celebrare le nozze con Miriam c’era riuscito alla grande, e perché proprio adesso dovrebbe fallire? – e che altresì compia il miracolo di richiamare un po’ di spettatori. Adesso l’afa si fa davvero sentire: o forse sono io ad avvertirla più del dovuto. Il timore che la mia prima uscita in pubblico possa passare inosservata, e che dunque debba fare i conti con un fiasco clamoroso, mi tiene in scacco, ed io sempre di più mi sento come intrappolato in una gabbia.

Miriam, seduta su uno sgabello a pochi passi da me, mi sta studiando già da alcuni minuti, sebbene quando mi giro verso di lei non esiti a distogliere subito lo sguardo. Lei ha capito tutto. S’è immedesimata in me totalmente. E sono certo che è la mia stessa paura a tenere anche lei sulla corda in una sorta di trepidante sospensione. A un certo punto mi soffermo a pensare che dopo di me, in quello stesso spiazzo si terrà la presentazione di un romanzo; non mi viene in mente il nome dell’autore e non è che mi sforzi minimamente di ricordarlo; so per certo che è il recente vincitore dello Strega, ma anche di questo non me ne importa alcunché.

Del resto le mie letture si sono fermate ad un manipolo di scrittori americani: gente come Paul Auster e Michael Chabon, e ultimamente Don DeLillo ( il suo “Underworld” l’ho letto di buona lena nei ritagli di tempo del montaggio del mio lavoro, e ho deciso che leggerò tutte le sue opere; quando uno scrittore letteralmente mi folgora, sono solito ringraziarlo con quest’atto di devota generosità.) Più tardi, ad un minuto dall’inizio della proiezione del mio video, quando un palpabile nervosismo mi sembra che acutizzi ancor di più il mio senso di paura e la mano ricorre al pacchetto di Gauloises nella tasca della camicia, d’un tratto m’accorgo che Miriam mi sta facendo cenno con gli occhi di girarmi indietro. Il viso è disteso e lei mi sorride: è un sorriso d’inequivocabile incoraggiamento il suo.

Scatto con la testa all’indietro e vedo David (chi mai se lo sarebbe aspettato?) avvicinarsi a passi corti e spediti verso di me. Appare felice. La sua espressione sbigottita alla Louis de Funès è più comica e luminosa del solito. Ci eravamo sentiti per telefono due giorni prima: lui si trovava a Limerick, e, dopo averlo informato della presentazione del mio video di questa sera, aveva tagliato corto dicendomi che avrebbe voluto esserci, ma che davvero non poteva. Avevo percepito una venatura di tristezza nelle sue ultime parole, come se la sua impossibilità ad assistere al mio esordio significasse per lui avermi perpetrato un vero e proprio tradimento. “Ciao Miriam”, è la voce inconfondibilmente melodiosa di David che ha appena risposto al saluto di mia moglie, poi sento una pacca affettuosa sulla spalla – il tocco gentile della mano di David – proprio nel momento in cui si spengono le luci del palco e le prime immagini in bianco e nero, accompagnate dalla musica di Wim Mertens, appaiono sullo schermo: gente che affolla il quartiere di Manhattan, un flusso impressionante di persone che sembra di colpo impazzita quando comincia ad affrettare nervosamente e di molto l’andatura. Il cielo sopra New York è grigio ardesia e le nuvole si spostano velocemente – anch’esse come improvvisamente impazzite. Un passaggio di nembostrati che sembrano stormi di uccelli in precipitosa fuga da un incombente pericolo.

“E’ venuto apposta per infondermi fiducia”, – penso, e vorrei dirgli qualcosa di particolarmente bello e carino per ringraziarlo, ma l’emozione mi blocca: e ho la sensazione che tutte le possibili frasi da sciorinargli al riguardo, una dopo l’altra, mi passino di volata per la testa senza che riesca a trattenerne una. David così esordisce:  “insomma, quando la smetti di sognare che le nuvole ci osservano dall’alto imitando i nostri gesti?” Lui solo sa che questo è un mio sogno ricorrente, neppure Miriam. Gliel’ho confidato in occasione di quella sbornia memorabile in un pub di Limerick che risale al luglio di quattro anni fa.

E ora ricordo che proprio dopo questa mia confidenza lui prese a parlarmi di Bill Viola. Attacco a ridere e lui non tarda a seguirmi, ma non troppo forte, e senza che nessuno possa accorgersene. La mia paura ormai è bella e svanita, ed io mi sento l’uomo più felice della terra.