Per la fusione fra Alessandria e Asti c’è tempo. Non si parla delle province, bensì dell’unificazione delle due Camere di Commercio. In realtà gli ostacoli non sono locali, bensì nazionali perché in Italia una legge di riforma non porta quasi mai a un risultato concreto. Così succede anche per la riforma degli enti camerali. Che dovevano diminuire. Ma per ora non sarà così del tutto. Le ultime pagine del copione sono state scritte dalla Conferenza Stato-Regioni, ma tutto nasce dal tipico cavillo giuridico capace di fare crollare una intera riforma.
Cosa è successo? Che la Corte Costituzionale ha accolto parte di un ricorso presentato dalle Regioni Toscana, Liguria, Lombardia e Puglia contro il decreto attuativo 219/2016 che regola il processo di aggregazione. La Consulta ha riconosciuto “l’illegittimità dell’articolo 3, comma 4, che stabiliva che il ministro dello Sviluppo economico avrebbe emanato il decreto ‘sentita’ la Conferenza Stato-Regioni, e non ‘previa intesa’ con essa, dunque violando il principio di leale collaborazione”. Bisognava quindi avere prima una ‘intesa’ con la Conferenza e non ‘sentire’ la Conferenza.
Chi doveva farlo? Il Ministro dello sviluppo economico cui spetta la “rideterminazione delle circoscrizioni territoriali, l’istituzione delle nuove Camere di commercio, la soppressione delle Camere interessate dal processo di accorpamento e la razionalizzazione”. Gli enti camerali sono in mezzo al guado di una riforma che ha riorganizzato le competenze e ridotto le risorse. L’aggregazione avrebbe dovuto rispondere non solo alla razionalizzazione di personale e strumenti operativi, ma anche a rendere più efficaci quei pochi strumenti ancora a disposizione che dovrebbero dare un senso all’attività che va oltre alla normale amministrazione dei servizi alle imprese.
Invece per ora niente di tutto questo. Infatti il 21 dicembre quando la Conferenza Stato-Regioni si riunisce per discutere il punto, iscritto al posto numero 6 dell’ordine del giorno, non si arriva ad alcuna sintesi e la decisione viene rinviata al 2018. La prima seduta utile è quella convocata per l’11 gennaio. Ma prima ancora viene organizzata una riunione tecnica, il 9 gennaio, per consentire l’approfondimento richiesto nel corso della quale le Regioni Lombardia, Piemonte, Friuli Venezia-Giulia e la Regione Siciliana hanno “confermato le richieste di inserire negli elenchi allegati allo schema di decreto quattro ulteriori Camere di commercio, mentre la Regione Toscana e la Regione Valle d’Aosta hanno sottolineato la necessità di accogliere le richieste già esposte in precedenza”, ovvero numeri più alti di enti camerali. Però il Ministero dello sviluppo economico non ci sta e parla di “impossibilità di accogliere le richieste di un ulteriore allargamento del numero complessivo di Camere”. Il muro contro muro non porta a niente di buono. E la seduta dell’11 gennaio si conclude con una mancata intesa.
Allora cosa succede alla riforma delle Camere di Commercio? Per ora non si capisce. Il governo potrebbe aspettare qualche giorno e magari ripresentare il decreto nel Consiglio dei ministri. Ma l’essere entrati nella gestione di ordinaria amministrazione, che precede il voto del 4 marzo, rischia di fatto di determinare un allungamento del processo di riordino avviato dopo anni e anni di discussione.
Peraltro di riforme rimaste in mezzo al guado, l’Italia ne conta parecchie. Una delle più clamorose è quella delle Province. E ora le Camere di Commercio potrebbero fare la stessa fine.