Mayno della Spinetta, il Robin Hood della Fraschetta: la banda dei ‘mainotti’ [Alessandria in Pista]

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Remottidi Mauro Remotti

 

 

Mayno diventò il capo riconosciuto di una banda di briganti che arrivò a contare, secondo le cronache popolari, 200 uomini a piedi e 40 a cavallo. I mainotti, cosi si facevano chiamare, ingrossavano le loro file grazie agli oppositori del nuovo regime francese che giungevano da ogni parte d’Italia verso la Fraschetta, laddove potevano trovare un nascondiglio sicuro grazie alla fitta vegetazione boschiva che la ricopriva quasi interamente[1].

Mayno della Spinetta, il Robin Hood della Fraschetta: la banda dei 'mainotti' [Alessandria in Pista] CorriereAl 1

Al riguardo, il ricercatore Franco Castelli[2] mette in risalto che: “in quella terra anzi, il brigantaggio era endemico, cioè lo sfroso, l’abigeato e una serie di attività illecite che servivano alla sopravvivenza di una popolazione contadina che viveva su una terra ciottolosa, avara, alluvionale”. D’altronde essendo una zona di frontiera (confinava  infatti con il Regno di Sardegna, il Ducato di Milano e la Repubblica Ligure), e soprattutto attraversata da alcune importanti vie commerciali, ben si prestava agli agguati alle carrozze.

Per governare la sua banda, Mayno si avvaleva di uno statuto, che era il codice Mayno della Spinetta, il Robin Hood della Fraschetta: la banda dei 'mainotti' [Alessandria in Pista] CorriereAl 2di una sorta di confraternita laica denominata “Compagnia di San Giovanni” retta da una disciplina rigida e militaresca. Ogni nuovo affiliato doveva accettare, previo giuramento, le regole e usare un particolare vestiario di foggia militare. Dopodiché veniva inquadrato in piccoli gruppi di sette-otto componenti comandati da un caposquadra.

Per le cure ad ammalati e feriti, Mayno si serviva del dottor Cavanna. Il medico veniva prelevato di notte dalla sua abitazione e con gli occhi bendati lo si conduceva a cavallo presso il paziente. Una volta terminata la cura lo si riportava a casa con le medesime modalità. Dal canto suo, la farmacia del convento di Bosco provvedeva a fornire i medicinali necessari.

Secondo quanto riporta Paola Bocca nel libro “Ricerche storiche sulla Frascheta[3], il gruppo più numeroso era quello di Pozzolo, comandato da un certo Serafone di cui si racconta che avesse sulla coscienza almeno 14 omicidi. Serafone aveva ricevuto in dono da Mayno, come premio per la sua fedeltà, un ricco mantello di colore blu scuro, sottratto a un ufficiale francese. A seguito dello sfaldamento della banda, trovatosi braccato e affamato, Serafone lo regalò in cambio di un pezzo di pane a un ragazzo di Quattrocascine (Antonio Demicheli) che pascolava la sua mucca nel boschetto di Retorto.

Attraverso la lettura degli atti del processo alla banda dei mainotti e alla tradizione orale possiamo conoscere i nomi dei principali componenti[4].

Mayno della Spinetta, il Robin Hood della Fraschetta: la banda dei 'mainotti' [Alessandria in Pista] CorriereAlIl più crudele era, senza ombra di dubbio, Giuseppe Cambiaso o Cangiaso, braccio destro di Mayno, meglio conosciuto come “il Sanguinario” a cui si attribuiscono diverse malefatte[5]. Con una parte della banda, che controllava personalmente (tanto da far pensare alla costituzione di una nuova formazione di malfattori) agiva nella zona del tortonese[6]. Dopo la morte di Mayno, restò latitante sino al 30 dicembre 1806, giorno in cui, a causa di una soffiata di due ex briganti diventati spie al soldo dei francesi, venne ucciso a Cascinagrossa nella casa di Giovanni Battista Taverna. Anche il suo cadavere, come quello di Mayno, fu esposto nella Piazza d’Armi di Alessandria e la notizia della morte fu resa pubblica con l’affissione di 600 manifesti bilingue.

Un altro personaggio fondamentale fu sicuramente Paolo Ferraris, fratello della moglie di Mayno. Di professione sarto, veniva considerato il letterato della compagnia e pertanto soprannominato “u Segretari” (il segretario). A lui spettava il compito di scrivere le missive che contenevano spesso minacce e richieste di denaro. Venne arrestato nel mese di giugno del 1806 mentre tentava di ricostruire una banda cercando alleati tra un gruppo di carcerati napoletani fuggiti durante un passaggio nei pressi di Piacenza.

Importanti ruoli ricoprivano anche Tommaso Mozzo (sarto di Scandeluzza, arrestato nel rifugio di Cangiaso e condannato a morte), Giuseppe Ferraris (meglio noto come “il Bastardino”, fratello di Paolo e della moglie di Mayno, acciuffato dalla polizia nel mese di ottobre 1807) e Stefano Barberis (detto “Ratatuia”, che morì in un conflitto a fuoco presso un cascinale vicino a Montenotte).

Anche le donne della banda – tutte ben vestite grazie a un sarto amico che aveva confezionato le loro divise – non erano meno coraggiose degli uomini. Così le descrive Sergio Viganò[7]: “non si sarebbero spaventate nemmeno al comparire di un drappello di soldati e di gendarmi; erano montenegrine, facevano da uomo e da donna a maraviglia; accarezzavano colla più grande tenerezza, col più grande abbandono le persone che amavano; ed erano ferme come torri, quando si trovavano in faccia al nemico coll’arma in mano che sapevano adoperare più agevolmente del fuso e della spola”. Si distinsero, in particolare: Maria Caravagna, Rosa Cangiaso (detta “la nana”) e Anna Maria Arzone, moglie di Stefano Barberis. Quest’ultima, travestita da gendarme o da ussaro seguiva il marito nelle sue scorrerie. Fu condannata a 25 anni di reclusione.

Mayno era molto benvoluto dalla popolazione locale e le sue gesta ebbero luogo grazie ai diversi fiancheggiatori[8]. Pare che abbia goduto anche di connivenze e complicità fra la polizia: lo stesso commissario Dellepiane, comandante della Guardia Nazionale, che i francesi incaricheranno delle indagini sulla banda di Mayno, faceva il doppio gioco ed evitava di interferire con le attività dei fuorilegge.

 

(continua)

 

[1] Marco Ventura nel libro “Il Campione e il Bandito”, Il Saggiatore, 2008, evidenzia che l’importante bonifica che ha trasformato nell’Ottocento la Fraschetta in un agro aperto è merito indiretto di Mayno. Il disboscamento è stato infatti voluto dai latifondisti che cercavano in questo modo di fare terra bruciata al brigante che lì trovava rifugio.

[2] “Speciale Mayno della Spinetta” in Nuova Alexandria, anno V, serie 1999, n.ro 8.

[3] Paola Bocca, “Ricerche storiche sulla Frascheta”, Tipografia Ferrari-Occella & C Alessandria, 1967.

[4] Facevano parte della banda anche i fratelli di Giuseppe: Francesco Antonio (più anziano), Giovanni (di poco più giovane) e il quattordicenne Domenico. Altri banditi degni di nota: Secondo Morelli, Giuseppe Antonio e Sebastiano Frachia, Giovanni e Felice Gambarotta, Bartolomeo e Felice Villacchia, GiovanBattista e Giuseppe Camagna, Giovanni Laguzzo e Giuseppe Arzone. Michele Ruggiero, autore del volume “Briganti del Piemonte napoleonico”, Le bouquiniste, 1968, ricorda anche il Ghibaudi, il Gnifetto e il Vasino, definiti:  “uno più pericoloso dell’altro”.

[5] Una volta si impossessò di un asino, ma Mayno lo obbligò a corrispondere al proprietario ilper accelerare i tempi, non si sarebbe fatto scrupolo di tagliarle il dito, se non fosse di doppio del suo valore. Durante una rapina ai danni di una coppia di fidanzati, Cambiaso si accorse che la fanciulla aveva al dito un prezioso anello. “Il Sanguinario”, nuovo intervenuto Giuseppe Mayno che liberò la ragazza e successivamente si recò più volte a trovarla. Allorché Cambiaso rapinò un poveretto, quest’ultimo si lamentò del sopruso. Per tutta risposta, il brigante gli disse che poteva considerarsi fortunato in quanto aveva conservato la pelle!

[6] Il 2 agosto 1805, Cangiaso si permise addirittura di organizzare un agguato ai gendarmi del Bourgois e del Verzone in quel di Lobbi. Le guardie furono attirate in un cascinale dove speravano di poter catturare il brigante in compagnia della sua donna; si trovarono invece circondati da un folto gruppo di banditi, che armati fino ai denti uccisero il Bourgois e ferirono il gendarme Ceriano prima di fuggire fra i campi.

[7] Francesco Viganò, “Il brigante di Marengo o sia Mayno della Spinetta leggenda popolare” 2 voll., Milano, Borroni e Scotti, 1845, 2ª ed., ivi, 1853; 4ª ed., Milano, Guigoni, 1891.

[8] Tra cui un parroco, un avvocato, un usciere della prefettura di Piacenza, un impresario, due osti, alcuni negozianti di bestiame, un pizzicagnolo e diversi contadini. Era anche molto amico di certi signori di Bosco: il nobile Manfredi, allora prefetto di Alessandria, veniva scortato dalla banda di Mayno affinché nulla gli potesse accadere.