Ancora pazzo dopo tutti questi anni [Il Superstite 353]

ATO6: "Crisi idrica, i cittadini siano più parsimoniosi con l'acqua" CorriereAl 1di Danilo Arona

 

 

L’inclito direttore della testata, il sublime Ettore Grassano, insiste perché io insista con un certo repertorio “alessandrino” che abbia a che fare con il (nostro) passato, con gli autentici personaggi che questa città in declino ha saputo sfornare e con la musica. Ettore lo fa perché si diverte un mondo quando ne legge, magari scoprendo pezzi di storia a lui ignoti. La storia di oggi, francamente un po’ umiliante per il sottoscritto, l’ho pubblicata una sola volta 24 anni fa e ci sta, insomma, a che la si rispolveri.

Dunque, nel 1979 (signur!) mi rimisi a suonare. Proprio nel senso professionale, andare in giro col gruppo, fare le prove e tirare mattina. Non affatto facile perché gestivo l’attività commerciale che ancora gestisco e gli orari erano implacabili. Ma la vita mi era rotolata un po’ addosso tra vortici sentimentali, radio private e soprattutto assenza di musica live. Così nell’agosto di quell’anno cedetti alle sirene del mercato locale ed entrai a far parte del più glorioso gruppo alessandrino, Quel Pazzo Mondo dei fratelli Carlo (Lallo) e Alfio Schiavoni, che ancora stanno nel carnet dei miei amici più cari. Fu un periodo intenso e non lunghissimo, un paio d’anni malcontati, ma che porto ancora nel cuore e nella memoria per l’inverosimile quantità di avventure e di risate, e soprattutto per l’ottima musica prodotta sul palco. Con Lallo e Alfio, la squadra comprendeva: Gianluca Romagnoli alle tastiere, il maestro Gigi Chiappin alla tromba (allora talentuoso ragazzino), Roberto Massone al basso, Diego Carneluti all’impianto e alle luci. Io ovviamente alla chitarra mentre Lallo e Alfio si occupavano di batteria e percussioni.

Agli inizi di ottobre ci capitò di andare a suonare a Carema, in Val Bozza automatica CorriereAl 2d’Aosta. Serata a dir poco strana: un ballo a palchetto, aperto sui quattro lati, e un freddo notevole data anche l’altitudine. Avevamo raggiunto la location con il pulmino di dotazione e in più la mia macchina, allora una ballonzolante Dyane 6 di color rosso, resasi  necessaria per il trasporto di due signorine, una delle quali da poco sposata con Alfio. Cielo di piombo, piazza deserta, nessuna locandina che annunciava la serata, tra l’altro infrasettimanale. Tant’era e montammo la strumentazione perché dubbi non sussistevano. Alle 21, 30, ora contrattuale per inizio esibizione, un uomo alto e ossuto, bianco e rosso come una banana flambè (che Lallo sapeva essere impresario di pompe funebri ma non ce lo disse subito), apparve all’ingresso del palchetto con una cassetta sotto il braccio, affermando con voce incolore di essere il cassiere. Di fronte ai nostri sguardi allibiti, si dispose in cassa, accese una lampada portatile, disponendo i biglietti sul legno e dicendoci: Bene, cominciate.

Al che le musiche partirono con la solida convinzione da parte di tutti che da lì a pochissimo il palchetto si sarebbe riempito di belle montanare. Dopo 50 minuti di lavoro, dove già avevamo dato il meglio giusto per attirare gente, smettemmo un attimo e ci guardammo scoraggiati: il palchetto era deserto, il posteggio pure e, da quel che si vedeva, le poche luci del paese circostante si erano spente. «Si vede che c’è qualcosa in TV», commentò qualcuno. Riprendemmo indomiti mentre le due nostre accompagnatrici, imbacuccate come per un ballo all’Antartide, bevevano grappini per scaldarsi. Alle 11 passate, ci concedemmo un riposino e Lallo andò a parlare con il conte Dracula alla cassa per tornare poco dopo con espressione drammatica. «Ha detto che dobbiamo tirare fino all’una come da contratto e di cambiare repertorio. Vuole tanghi, valzer e mazurche.» In repertorio non c’era molto del cosiddetto liscio e arrancammo sino a mezzanotte con noiosissime tiritere, ripetute allo sfinimento, sui giri fissi. A mezzanotte ulteriore sosta ed ennesima contemplazione di una situazione da film horror (che in effetti mi ha ispirato un capitolo di Rock – I delitti dell’Uomo Nero): un paese all’apparenza spopolato, un cassiere spettrale e un gruppo di musicisti che suonavano per il nulla. Andò avanti sino all’ora contrattuale con un magone che non vi dico e le due ragazze sotto il palco ciucche per i grappini. Quindi Lallo si presentò dal cassiere per percepire la paga e l’uomo tirò fuori la grana senza battere ciglio, prima di sparire nella notte. A quel punto doveva cominciare la turpe sequenza dello smontaggio e del carico strumentazione. Alfio mi si avvicinò e mi chiese se mi andava di anticipare la mia partenza da Carema per portare a casa le due ragazze, stremate da tanto far nulla. Ovvio, non c’era alcun problema e la prospettiva di scansare la faticaccia suonava più che allettante. Così salutai Quel Pazzo Mondo e mi diressi con le tipe verso la Dyane.

Ora, dovete considerare che quelli erano altri tempi e la fiducia nel prossimo da parte mia era ancora illimitata, nel senso che usavo  lasciare le portiere dell’auto quasi sempre aperte anche perché da rubare non ci stava niente. Quella notte a Carema mal me ne incolse. Come aprii la portiera alla moglie del nostro percussionista, un ripugnante e inconfondibile fetore mi artigliò le narici, ma non feci purtroppo in tempo ad avvertirla e impedirle di sedersi su un considerevole cumulo di sterco umano, con evidenza sgradito regalo di uno o più abitanti del paese fantasma. Per dirla senza metafore, mi avevano cagato in macchina e il delizioso sedere della ragazza era pressoché sprofondato nelle feci. Qui giunti, vi lascio solo immaginare il seguito; le urla, il notevole obbrobrio, la svestizione degli interni della macchina (tappetini e coprisedili) e il ritorno con tutti i finestrini abbassati…

Però mai ho pensato di smettere. Come cantava Paul Simon, “Still Crazy After All These Years”. Per la musica si può fare, ancora se oggi ho un sacco di anni in più. Però la vita di un musicista spesso è proprio una vita di merda.

Nella foto la prima formazione di Quel Pazzo Mondo: Luciano Piccinno. Vincenzo “Joselito” Pandolfi,  Lallo Schiavoni e Piero Nano