Senza nome e senza gloria [ALlibri]

La sinistra alessandrina strumentalizza Umberto Eco...e intanto dimentica Delmo Maestri CorriereAl 1A cura di Angelo Marenzana

 
L’autore-proposta per il nostro incontro domenicale con la lettura è Luca Cozzi, classe 1967, nativo di Genova ma da sempre residente nella campagna ricca di vigneti del basso Piemonte, vicino a Gavi. Senza nome e senza gloria è il suo romanzo d’esordio pubblicato nel 2016 con un nome a noi noto dell’editoria di provincia, ovvero la casalese Edizioni della Goccia di Davide Indalezio.

Shaytan, anch’esso pubblicato da Edizioni della Goccia, è il suo secondo romanzo.

 
PROLOGO

 

Deserto libico, aprile 1992.
La notte era senza luna e una coltre nuvolosa oscurava buona parte del firmamento. Senza nome e senza gloria [ALlibri] CorriereAl 1
Una leggera brezza soffiava da est. Quattro figure vestite di nero avanzavano veloci e invisibili verso la parte esterna della recinzione. Quel primo sbarramento non era illuminato in modo uniforme e non ebbero difficoltà ad acquattarsi in prossimità di un tratto completamente buio.
Praticato un varco nella rete metallica, avanzarono rapidi e silenziosi come serpenti.

La seconda recinzione distava un centinaio di passi. Era illuminata meglio e, ogni duecento metri, una torretta di guardia era sorvegliata da un soldato e dotata di un riflettore.

I quattro uomini si divisero. Tutto fu rapido, silenzioso e letale. Due torrette furono neutralizzate, le guardie uccise sul colpo prima che potessero emettere un solo grido. Il più anziano dei quattro fu il primo a entrare, seguito dal suo secondo, il più giovane del gruppo. Percorsero cinquanta metri e si addossarono alla parete di un vecchio hangar, al riparo di alcuni fusti di carburante. Trentacinque secondi dopo furono raggiunti dagli altri due membri del commando. Erano passate esattamente tre ore e ventidue minuti da quando l’elicottero li aveva lasciati. Tutto secondo i piani.

A un cenno del più anziano, due di loro si mossero in direzione della costruzione vicina, adibita a dormitorio. All’interno, cinque agenti dei servizi di sicurezza libici smisero di vivere esattamente quaranta secondi dopo. Nell’hangar erano parcheggiati tre camion di fabbricazione russa che saltarono in aria quattro minuti più tardi. Dalla piccola caserma del campo uscì un gruppo di soldati ancora intontiti dal sonno ma, prima che potessero capire cosa stesse accadendo, una violenta esplosione polverizzò il piccolo deposito di carburanti e munizioni. Il comandante della base non poteva coordinare la reazione dei suoi uomini, non con una pallottola conficcata nel cervello. Anche la guardia della piccola prigione giaceva a terra, la gola recisa.

Erano passati otto minuti da quando il gruppo aveva varcato la prima recinzione. Ora cinque uomini si stavano allontanando nella notte del deserto. Uno di essi zoppicava vistosamente, ma era di nuovo libero.
Periferia nord di Aozou, Ciad, ottobre 1992
All’interno del bunker le luci erano accese, un sottile filo di luce usciva dalle feritoie vicino al soffitto. La sentinella non si accorse di nulla. Di lì a un minuto la porta si sarebbe aperta e una guardia sarebbe uscita per dare il cambio al compagno, ora riverso a terra con l’osso del collo spezzato.
Numero Uno era stato silenzioso e letale, come sempre. Come era stato addestrato a fare e come lo sarebbero stati i suoi uomini al posto suo. Ora Numero Due, il più giovane del gruppo, si trovava alla sua destra, dalla parte opposta della porta del bunker. Gli altri due uomini del commando attendevano nel buio a pochi metri di distanza.
All’ora prevista, le luci della casamatta si spensero e la porta si aprì. Ne uscì un soldato alto e dalla corporatura possente, le spalle larghe e il collo taurino. Nel silenzio delle tenebre africane, l’uomo a capo del commando udì il classico rumore sordo del silenziatore nello stesso momento in cui vide crollare a terra l’energumeno. Nel medesimo istante il suo secondo lanciò una granata flash-bang dentro la casamatta. Rapidi e micidiali, anche gli altri due membri della squadra entrarono e uccisero due agenti dei servizi segreti.

L’interno del bunker era arredato in modo spartano, con tre coppie di letti a castello da un lato e un fornello con un piccolo tavolo sul lato opposto. Al centro della parete di fronte all’ingresso c’era un’altra porta chiusa con un lucchetto. I quattro uomini sapevano chi avrebbero trovato oltre quella porta. Erano venuti per lui.
Un’ora e trentaquattro minuti dopo, al punto prestabilito ed esattamente all’ora prevista, un elicottero privo di insegne raccolse cinque uomini esausti e si allontanò veloce verso ovest. Uno di essi, ancora in preda a pesanti droghe, continuava a delirare ma nessuno dei quattro capiva cosa stesse dicendo: nessuno di loro parlava russo.

Porto di Corinto, Nicaragua, marzo 1995
La nave era buia e silenziosa. Avevano terminato le operazioni di carico nel pomeriggio ed erano pronti per salpare le ancore all’alba. In cielo, una spessa coltre di nubi oscurava la luna e le stelle. Quattro uomini emersero dall’acqua a pochi centimetri dalla murata esterna della nave. Con un tonfo sordo una sagola agganciò i propri artigli alla battagliola.
Alle 23:59 Numero Uno mise piede sul vecchio mercantile.
Il prigioniero, l’uomo per il quale erano venuti, era in stato confusionale. Lo avevano picchiato, poi drogato, poi percosso ancora duramente, ma non aveva parlato. Un profondo taglio gli aveva lacerato lo zigomo destro fino a mostrare l’osso della mascella. Aveva un braccio fratturato e gli occhi gonfi e lividi. Non sapeva quanto tempo fosse passato da quando lo avevano portato lì. Ricordava vagamente di essere salito su una nave, ma non avrebbe saputo dire se si trattava di sogno o di realtà.
La sentinella fuori dal boccaporto non sentì nulla: morì sul colpo, il collo spezzato. I quattro uomini venuti dal mare entrarono. Uno nascose il cadavere e rimase di guardia, gli altri scesero silenziosi le scale che portavano al ponte degli alloggi e si separarono. L’uomo di guardia alla cabina del prigioniero non fece in tempo a reagire né a dare l’allarme prima che la lama gli recidesse la trachea. Impiegarono otto secondi per forzare la serratura ed entrare. Udirono i tuoni inconfondibili delle granate lanciate da Numero Tre.

Alle 00:10, silenziosi come erano arrivati, si calarono oltre la murata della nave e scomparvero nel buio della notte senza luna. Erano trascorsi undici minuti da quando erano arrivati sul mercantile. L’americano che avevano liberato aveva perso i sensi ma se la sarebbe cavata. L’uomo che, di lì a pochi minuti, avrebbe dovuto giustiziarlo, giaceva nella propria cabina con due pallottole nel cervello.
Senza nome e senza gloria [ALlibri] CorriereAlDieci anni dopo

CAPITOLO 1
Luke era appena rientrato nel suo appartamento e stava accendendo la luce quando squillò il telefono. Appoggiò la chiave sul mobile stile Luigi XVI, chiuse la porta e andò in cucina. Prese il cordless e si sedette sulla seggiola accanto al frigo.
«Pronto!»
«Ciao Luke, come te la passi, vecchio mio?»
Il saluto apparteneva inequivocabilmente a Diego Ybarra. C’era, tuttavia, qualcosa di stranamente dimesso nella sua voce.
«Ciao Diego! Quanto tempo è passato! Era ora che ti facessi vivo. Tu piuttosto, come stai?»
«Ti devo parlare Luke. È una cosa importante. Ora non posso dilungarmi oltre, ma vorrei incontrarti, non appena puoi».
Non era stato capace di fingere per più di pochi istanti e il suo tono, adesso, tradiva un evidente stato d’ansia.
«D’accordo… okay. Dove vuoi che ci vediamo?»
«Ti va bene domani, alla partita dei Sixers? Offro io».
«Si può fare. Ci vediamo davanti alla vecchia palestra abbandonata; te la ricordi ancora?»
«Certo che me la ricordo: non sono passati mica cent’anni da quando andavamo allo stadio insieme».
«Ottimo, allora ci vediamo là. Alle sette, ti va bene?»
«Fantastico, sapevo di poter contare su di te! Ora ti devo lasciare. Ti ringrazio ancora».
«Da dove stai chiamando? Sei qui in…»

Si accorse che stava parlando a vuoto: Diego aveva già messo giù il ricevitore. Riattaccò e rimase pensieroso. Scostò la tendina della finestra e guardò fuori: aveva incominciato a piovere e le luci delle macchine creavano strani effetti.
Diego era nato in un quartiere popolare alla periferia di Filadelfia. Non aveva mai conosciuto suo padre e, per quanto riguardava sua madre, forse sarebbe stato meglio se non l’avesse mai conosciuta. Era una prostituta alcolizzata che usciva di casa al tramonto e ritornava quando il sole era già alto, solo per bere e urlare, urlare e bere. Diego era cresciuto con la sorella Mary Elisabeth, di quattro anni più grande, figlia del primo marito di Mamma Liz, e il fratellino Jackie.
Mary si prese cura di loro finché non ebbero l’età per cavarsela da soli, che, nel quartiere malfamato di Filadelfia, significa avere all’incirca dieci anni. Fu allora che Diego cominciò a capire quanto fosse difficile sopravvivere in una società violenta e al limite della legge, senza un padre e con una madre e una sorella che battevano il marciapiede. Vigeva la legge del più forte e lui imparò a esserlo: era l’unico modo per non essere sopraffatto da quella cruda realtà.

A quindici anni aveva già svaligiato otto negozi e scippato una quantità considerevole di persone. A sedici era già a capo di una banda che portava il suo nome. Ne aveva diciassette quando, durante un conflitto a fuoco con una banda rivale, morirono due suoi “uomini”. Paco non ne aveva neppure quattordici ed era lì, steso sull’asfalto in una pozza di sangue, con la gola tranciata da una raffica di mitraglietta e la pistola ancora stretta nel pugno. I suoi occhi fissavano il vuoto, terrorizzati da qualche cosa che non capivano, da un dolore caldo e lacerante che aveva strappato loro la vita. Angel invece, era riverso con la faccia sul marciapiede, la schiena crivellata da ventidue proiettili calibro 7,65. Aveva compiuto sedici anni da una settimana.

Fino a quel momento Diego aveva giocato; non aveva pensato che si potesse crepare. Paco e Angel, invece, erano morti e la colpa era sua. Non se lo sarebbe mai perdonato.
Decise di evadere da quel mondo che lo stava soffocando con la sua puzza nauseabonda. Si arruolò in Marina, aveva diciotto anni e un giorno e, concluso il periodo di addestramento, fu imbarcato sul dragamine Shine.

Luke McDowell, invece, aveva avuto quella che si può definire, con malcelata superficialità, un’infanzia felice. Suo padre era un pilota della Pan Am e sua madre un medico legale con il lavoro al primo posto nella scala dei valori umani. Lui e suo fratello Dennis, di un anno più piccolo, erano cresciuti con Jessica, la preziosa tuttofare di famiglia: governante, baby-sitter, amica e schiava al tempo stesso, super pagata e mai ringraziata. Del resto, il signor McDowell non c’era mai e la signora Janet era sempre in servizio.

Quando Luke era poco più che sedicenne avvenne ciò che, probabilmente, segnò la sua vita in modo determinante.

Come ogni anno Jessica, Luke e Dennis andarono alla prima esibizione interna stagionale dei Philadelphia 76ers. Fu una partita memorabile. I Celtics furono travolti con un sonante 118 a 89 e ci fu una grande festa alla fine del match. L’euforia era alle stelle, i due fratelli si stavano divertendo molto e Jessica non se la sentiva di interrompere quel momento di gioia. Si fece tardi: quella sera ci sarebbe stato lo zio Ned a cena e il signor McDowell teneva molto alla puntualità in certe occasioni. Per non incappare nel caotico traffico cittadino, presero la tangenziale che costeggiava la parte occidentale della città. Pioveva molto forte e la visibilità era pessima. Jessica e il taxista che veniva in senso opposto decisero di sorpassare contemporaneamente. Lo scontro frontale fu inevitabile quanto devastante. La ragazza morì sul colpo e Freddy, il taxista, fu proiettato fuori dall’abitacolo attraverso il parabrezza; spirò poco dopo.

I soccorsi arrivarono immediatamente ma per Luke quei pochi minuti sembrarono non passare mai. Dennis aveva perso i sensi. Luke riusciva a scorgere la faccia del fratello coperta di sangue ma non poteva muoversi e la testa sembrava girare come le pale di un mulino. Jessica non dava segno di vita, quindi toccava a lui cercare di fare qualcosa. Le mani erano diventate pesanti come macigni e il sapore del sangue gli riempiva la bocca.

C’era un forte odore di bruciato e l’aria tutt’intorno si era fatta irrespirabile. Perse i sensi.
Lo svegliò una fitta lancinante al fianco. Gli sembrava di avere la testa dentro una lavatrice e qualcuno doveva aver attaccato la centrifuga. La prima cosa che vide fu una divisa. Era quella di un pilota della Pan Am.
«Buongiorno figliolo. Come ti senti? Riesci a parlare?»
Riconobbe la voce di suo padre ma, attraverso la vista annebbiata, non riusciva a scorgere i particolari del viso. Avrebbe voluto parlare, chiedere come stavano Jessica e Dennis, ma non riusciva a emettere che qualche incomprensibile suono.
«Non ti sforzare figliolo, sei molto debole e sei ancora sotto l’effetto dell’anestesia. Il dottore dice che sei fuori pericolo, stai tranquillo. Ora io devo andare ma tra poco arriverà tua madre e starà qui con te».

Anestesia? Fuori pericolo? Allora si trovava all’ospedale ed era stato operato. L’incidente doveva essere stato molto grave. Chissà come stavano Jessica e Dennis. Maledizione, non riusciva a parlare! Il sonno si fece insopportabile. Si riaddormentò.
Il mattino dopo, alle prime luci dell’alba, Luke si svegliò. Stava decisamente meglio, la vista non era più annebbiata. Vicino al letto c’era sua madre, aveva il viso stanco di una che non dormiva da parecchio tempo e gli stringeva la mano tra le sue.
«Mamma… dove sono?»
«Ti trovi al St. George Hospital, tesoro».
«Cos’è successo?»
«C’è stato un incidente. Mentre tornavate a casa dopo la partita. È accaduto tre giorni fa».
Luke chiuse gli occhi. La testa gli doleva. Rivide le ultime immagini che la sua mente ricordava, la faccia insanguinata di Dennis, Jessica immobile al posto di guida. Pur temendo la risposta, doveva fare quella domanda, doveva sapere.