Il Friuli-VeneziaGiulia è fin dal I secolo a.C., con le leggendarie vigne di Aquileia (celebrate tanto dagli storici della Repubblica e del Principato occidentale quanto poi dagli eruditi dei Patriarchi d’Oriente), il vigneto dell’Impero. Un riconoscimento di qualità assoluta che prosegue fino ai nostri giorni, rinverdito oggi da una certa moda che da alcuni anni benedice i vini friulani; moda che già era stata divisata e auspicata (nonché favorita) da alcuni pionieristici articoli di Luigi Veronelli risalenti a una sessantina d’anni fa.
Cosí come per la gastronomia di una Regione che da sempre è stata un confine è difficile stabilire che cosa sia originario e che cosa importato, cosí per i vitigni è difficile definire quali siano autoctoni e quali non lo siano: ché anche le varietà internazionali (Cabernet Sauvignon, Chardonnay, Merlot, Pinot Bianco, Pinot Grigio, Pinot Nero, Riesling, Sauvignon Blanc, Traminer Aromatico) acquisiscono qui caratteri di assoluta unicità; e, con l’eccezione dei vitigni prettamente aromatici, è piú il territorio che la cultivar a esprimersi nel bicchiere. Come vitigni strettamente autoctoni sono da citare: Friulano, Malvasia Istriana, Picolit, Pignolo, Refosco, Ribolla, Schioppettino, Tazzelenghe, Verduzzo; e sono presenti anche varietà rarissime in piccolissimi areali, come Piculit Neri e Sciaglín e Ucelút.
Ma, come si diceva, il grosso dell’espressività è demandato al territorio cui il vitigno si limita a fare da traduttore. Esiste, certo, un’ampia produzione (qui come altrove) dignitosissima ma poco interessante perché volta a produrre vini di facile beva e superficiale omologazione. Ma i grandi vini friulani – quelli di cui c’interessa parlare qui – sono di un’espressività unica, proprio in virtú di questa loro facoltà di comunicare un’intera terra attraverso il sorso.
E non è una terra facile. Il Carso in particolare consente rese talmente basse che terrorizzerebbero qualsiasi vitivinicoltore che non fosse dotato della tenacia che caratterizza la gente di questi luoghi; nel Collio e nei Colli Orientali, la stessa ponka (polvere e scaglie di flysh argilloso eocenico che costella il terreno della zona) che garantisce tanta personalità ai vini impone però naturalmente un contenimento delle rese in vigna: si tratta di un tipo di terreno che con gran facilità si disgrega, e che costringe a continue opere di terrazzamento (i “ronchi”) magari per un singolo filare. Altro elemento fondamentale, assieme al terreno, è la luce: afferrata al volo dalle sapienti esposizioni, o prodigiosamente riflessa dalle acque del fiume nello straordinario terroir isontino; qui viene prodotto fra gli altri un vino d’uvaggio che in certe annate si può considerare il miglior bianco d’Italia.
Prima di concludere, è necessario citare un paio di storie di parole.
Il vitigno “Friulano”, che si citava prima a proposito degli autoctoni, era un tempo chiamato “Tocai”; dal momento che (come sarà noto) il Tokaji è un nettare ungherese – uno dei piú straordinarî vini dolci al mondo – che si produce con uve del tutto diverse dal Friulano, per evitare confusioni commerciali s’è stati costretti a modificare il nome dell’uva nostrana. Ma, quando nel XVII secolo Aurora Formentini andò in Ungheria sposa del conte Adam Batthyany, è riportato che abbia portato in dote fra l’altro trecento viti di un’uva allora denominata “Toccai”: non si sa di che vitigno si trattasse, ma fra le uve principali dell’odierno Tokaji ungherese è annoverata la Furmint (che assona curiosamente col nome della nobildonna).
Fino a qualche tempo fa, il Prosecco (famosissimo spumante veneto di cui meglio cercheremo di parlare fra due settimane) si produceva con “uva Prosecco”; oggi si produce esattamente con la stessa uva, che però è stata rinominata “Glera”. Il motivo è speculare a quanto detto per il Tokaji, e lo scopo è quello di preservare una nostra specificità nazionale. Finché “Prosecco” era il nome dell’uva, chiunque la impiantasse in qualsiasi angolo della terra poteva a buon diritto scrivere in etichetta che quello era “Prosecco”; allora s’è trovato un paesino in Friuli-VeneziaGiulia che si chiama Prosecco ed estendendo fino a esso il confine della Denominazione s’è potuto legare il nome “Prosecco” a una denominazione geografica piuttosto che a una ampelologica: a questo punto, modificato in “Glera” il nome dell’uva, chiunque la vinifichi fuori dell’areale del Prosecco potrà ben scrivere “Glera” in etichetta ma non già “Prosecco”.
Una (rara) vittoria italiana di fronte ai grandi mercati internazionali.