Canti e misteri di Campana [Novecento]

Canti e misteri di Campana [Novecento] CorriereAl 1 di Pietro Mercogliano

 

 

Dino Campana è uno degli individui piú misteriosi fra quanti abbiano partecipato alla storia della nostra Letteratura.

Nacque nel paesino tosco-romagnolo di Marradi. Il padre, prima maestro e poi preside di scuola, pare fosse un onest’uomo di carattere non troppo forte; la madre aveva un carattere molto duro ed era affetta da diverse sofferenze psichiche come alcuni disturbi compulsivi e dromomania, e pare inoltre fosse malsanamente attaccata al secondogenito Manlio Campana. Cosí, mentre la sua infanzia trascorreva apparentemente serena, in Dino Carlo Giuseppe iniziava ad allignare l’ombra della follia che già dai quindici anni iniziò a manifestarsi in maniera sempre piú palese.

La sua continua smania di viaggiare (per certo senso simile a quella che affliggeva già sua madre ma in lui ben piú divorante) e le imprevedibili intermittenze della sua coscienza causarono ripetutamente suoi periodi d’internamento in manicomio; periodi dai quali, com’è facile immaginare, tornava ancora piú sconvolto di quando v’era entrato. Vi furono anche tentativi di fuga, sia da casa sia dagli istituti in cui era recluso di volta in volta, ma nessuno di questi poté mai risolversi in un duraturo successo.

Dei suoi molti viaggi, il piú misterioso è quello del 1907 in Argentina: non si sa come esso sia avvenuto né se sia avvenuto affatto. E diversi aspetti della biografia di questo personaggio rimangono avvolti nella spira fumosa delle supposizioni e delle voci riferite.

Un altro momento misterioso della sua vita è quello in cui, una decina d’anni dopo, Canti e misteri di Campana [Novecento] CorriereAl 2strinse una relazione con la scrittrice Sibilla Aleramo: relazione tempestosa, di cui si ha informazione attraverso un carteggio privato.

Si sa per certo che Dino Campana, nel 1913, consegnò al caporedattore della rivista “Lacerba” Ardengo Soffici l’unica copia di un suo manoscritto intitolato “Il piú lungo giorno”.
Soffici prese il manoscritto e lo appoggiò in mezzo ad altre carte, dove fu rinvenuto nel 1971. Lo smarrimento dell’unica copia della sua opera, cosa che avrebbe guastato l’umore anche a gente di maggior equilibrio del nostro poeta, ebbe su di lui un effetto devastante: ma a nulla valsero le sue smanie ed i suoi furori.

Cosí Dino Campana, placata un poco la violenza intemperante, mise a frutto un altro aspetto delle peculiarità della sua mente: e riscrisse a memoria da capo a fondo riga per riga la sua opera; in realtà – ora che possediamo anche il manoscritto che era perduto – sappiamo che la congruenza fra la prima stesura e la seconda non è totale: ma la precisione di quanto è rimasto immutato fa supporre che le differenze siano frutto di una sorta di revisione piuttosto che di una memoria imperfetta.

Canti e misteri di Campana [Novecento] CorriereAlUno dei cambiamenti immediatamente lampanti è il titolo, che ora diviene “Canti Orfici”. Il riferimento è sia agli Inni Orfici greci, antichi testi misterici di straordinaria potenza; sia direttamente a Orfeo, il mitico poeta-musico che era in grado di commuovere la Natura e gli dèi e che discese al mondo della morte e ne risalí e che morí smembrato dalle seguaci di Dioniso.

I testi (prose liriche e versi) dei “Canti Orfici” sembrano scritti in un ebbro dormiveglia: il linguaggio, sempre fortemente visivo e sinestetico, rutila corrusco fra un’immagine e l’altra; il senso va colto, come quello di un quadro cubista, dalla percezione simultanea di tutte le prospettive possibili che il dettato propone. Le continue iterazioni e i folgoranti accostamenti metaforici fanno davvero pensare a qualcuno che parli mentre sia ancora (o già) in parte assorbito nella visione o nel sogno.

L’estrema difficoltà di testi del genere (pur nella loro immediata bellezza tremenda) ne ha pregiudicato una dilagante fortuna; e anche la posizione antinterventista di Campana, unita alla sua fama di folle, non giovò alla sua fama immediata. Pure, fu molto apprezzato da alcuni contemporanei: i primi contatti con la Aleramo avvennero per l’infatuazione di lei verso l’opera di lui e il grande – ancorché oggi non affatto abbastanza noto – Giovanni Boine lo lodò in un’ottima recensione, ed anche i redattori della rivista “la Voce” accolsero alcuni suoi pezzi sulle loro pagine.

Ma, ricoverato per una forma avanzata di ebefrenia in un istituto per malattie mentali presso Scandicci, morí plausibilmente della setticemia che in un tentativo di fuga gli procurò del filo spinato allo scroto.