Sacchi chi legge [Lettera 32]

Giuliano Beppedi Beppe Giuliano

 

 

Ha gli occhi matti e fanciulleschi di chi vive un’ossessione. Occhi “spesso coperti da Ray-Ban agghiaccianti” scriveva Gianni Mura.

Vive la sua, di ossessione, che ovviamente è il pallone. Mangia pallone, dorme (anzi, da buon ossessionato non dorme) pallone, pensa pallone, ama e odia pallone, non ha spazio per altro, nient’altro ha ragione d’essere.

Al supercorso da allenatore di Coverciano, che frequenta da sconosciuto (la sua carriera da calciatore è paragonabile per modestia solo a quella di Mou, tra i grandi della panchina) nell’estate del mundial di Spagna, Aldo Agroppi, non particolarmente colpito dalla prontezza della sua intelligenza, con la tipica feroce ironia toscana lo etichetta in modo velenosissimo: “Sacchi chi legge”.
(Arrigo Sacchi tra l’altro con Agroppi ha in comune le violente crisi provocate dallo stress, che pongono termine alla carriera da allenatore di entrambi.)

Trent’anni fa oggi, il 3 luglio 1987, gli affida la panchina del Milan il presidente Silvio  Sacchi chi legge [Lettera 32] CorriereAl 1Berlusconi, con geniale e molto fortunato coraggio. Sostituisce una leggenda vivente come il barone “Liddas”, così diverso dal vulcanico nuovo proprietario e quindi poco, anzi per nulla gradito.

Iniziano a dire che “non mangerà il panettone” e ci va vicino, dopo la sconfitta in coppa Uefa con l’Espanyol, con una difesa imbarazzante tagliata a fette dagli spagnoli. Ci mette del suo schierando i pupilli Mussi e Bianchi (Mussi lo vedremo addirittura giocare una finale del mondiale, per quanto incredibile possa sembrare). La lezione gli serve anche se a salvarlo, la domenica successiva, è un golletto di testa di Virdis a Verona (una città che in genere è meglio non nominare ai milanisti).

Da lì inizia tutta un’altra storia, quella della squadra italiana che gioca il futból più rivoluzionario di sempre, l’unica paragonabile al grande Ajax o al suo discendente Barcellona.

“Possiamo avere idee diverse, ma lui lascia il segno e, come tecnico, gli devo riconoscere di aver fatto bene all’immagine della categoria. Se uno va allo stadio senza sapere chi allena, capisce subito se in panchina c’è Sacchi. È uno che firma il lavoro.” (Parole e musica di Carletto Mazzone, come noto non propenso alle smancerie).

Credo siano sufficienti due partite per conferma. Il 3-2 al San Paolo con cui il Milan liquida il Napoli di Maradona per sigillare lo scudetto nel primo anno dell’omino di Fusignano. E il 5-0 al Real Madrid, l’anno dopo, semifinale di Coppa dei Campioni. Chi scrive ha assistito a quella partita in un San Siro entusiasta. Mai prima e mai più dopo ho visto dominare un incontro di tale livello in quel modo.

Certo, era una squadra ricca di fuoriclasse. Maldini resta a mio avviso, stilisticamente, il più bel difensore di sempre (ammesso non sia riduttivo definirlo Sacchi chi legge [Lettera 32] CorriereAldifensore) con l’altrettanto elegante Ruud Krol. I tre olandesi, a proposito, erano incontenibili. Curioso che il periodo di successo di Sacchi sia breve quanto la carriera della sua nemesi Van Basten, un Achille con uguale fragilità al tallone, ma classe maggiormente cristallina rispetto all’eroe di Omero, e più dribbling e più tiro.

Però la differenza non la fecero i pur eccezionali singoli, la fece la “zona pressing” che lui aveva iniziato a studiare allenando le giovanili della Fiorentina, anche parlandone con Passarella, allora in viola e capitano della prima Argentina mondiale (curioso dunque che tra i “maestri” di Arrigo non venga citato mai il Flaco Menotti).

In fondo, se guardiamo la freddezza dell’albo d’oro, si trova di sostanziale il solo scudetto del primo anno rossonero e due Coppe Campioni vinte con finali tutt’altro che memorabili (e sulla prima delle due resta il sospetto di un impegno non eccessivo degli appagati – ho scritto appagati, non pagati – rumeni della Steaua).

Oltre a una finale mondiale raggiunta giocando spaventosamente male, peraltro nei mondiali più brutti di sempre, a USA ‘94, nei giorni in cui nacque un’altra leggenda molto alimentata dai giornalisti, quella del “culo di Sacchi” (non ne ebbe tuttavia abbastanza quando i nostri andarono sul dischetto per giocarsi la Coppa col Brasile che vinse ancora piangendo la scomparsa di Ayrton).

Quando Baggio, che ci e lo aveva trascinato in finale, infortunato ed esausto sbagliò il rigore, la carriera di Arrigo Sacchi era ormai nei fatti già finita, perché quello stress di cui dicevamo era diventato ormai insostenibile. Le sue luci, a ben pensarci, si erano spente coi riflettori del Velodrome, la sera della piazzata di Galliani (che eseguì un ordine arrivato direttamente da Arcore), la sera in cui l’OM osò mostrare al mondo che anche quel Milan era mortale.

Buffo, poi, che molti suoi giocatori siano stati eccezionalmente longevi, Maldini Baresi e Costacurta per primi, anche se lui era accusato di logorarli, mentre quello con la carriera breve (come il già citato, sfortunatissimo Van Basten) è stato proprio lui.

A pensarci, infatti, chi è nato trent’anni fa, nell’anno in cui Sacchi ha iniziato a rivoluzionare il calcio italiano con quel Milan, praticamente una sua squadra giocare non l’ha vista mai.

Allora giusto dirlo, e credetemi: è davvero un peccato, perché quella squadra lì giocava un futból straordinario, dominando come in Italia nessun’altra squadra, mai.