Le Consuetudini di Alessandria del 1179[1] costituiscono la più antica raccolta di usi locali a oggi esistente, e palesano la conquista dell’autonoma normativa da parte della nostra città sorta appena undici anni prima.
La raccolta originale non ci è però pervenuta, poiché, tra la fine del 1537 e i primi giorni dell’anno 1538, le carte che contenevano le Consuetudini furono misteriosamente asportate dal codice comunale.
Il consiglio cittadino conferì allora l’incarico a quattro giuristi di provvedere al loro ripristino basandosi sulle copie esistenti. Tale testo fu poi pubblicato nel 1547 dagli editori Moscheni[2] al termine del volume dove era stampato il Codex Statutorum magnifice communitatis atque dioecaesis alexandrinae.
Per lungo tempo le Consuetudini sono state conosciute soltanto sulla base di questa edizione. Alla fine del XIX secolo è stato individuato presso la Biblioteca Nazionale di Torino un codice cartaceo (redatto tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo) che conteneva il testo sia degli Statuti che delle Consuetudini.
Entrambi i tomi presentano comunque errori, sebbene quello del Moscheni possa ritenersi più corretto e meno lacunoso.
Autorevoli studiosi[3], in passato, hanno sollevato dubbi a proposito della genuinità delle Consuetudini: appariva infatti improbabile che soltanto dopo pochi anni dalla fondazione di Alessandria potessero essere già raccolti usi consolidati.
Franco Niccolai[4] è stato tra i primi a confutare tale obiezione sostenendo che Alessandria è stata popolata rapidamente da abitanti confluiti dai paesi vicini, ciascuno con le proprie tradizioni. Pertanto, può essere stata avvertita la necessità di definire in un testo riassuntivo quali dovessero considerarsi davvero operanti.
Il linguaggio utilizzato è quello tipico giuridico medievale, ossia un latino ricco di termini volgari in cui appaiono parole di tradizione germanica. Il documento mostra una costruzione del periodo poco comprensibile e una scrittura piuttosto approssimativa. Si tratta, con tutta probabilità, di una raccolta alluvionale che si è concretizzata in più momenti successivi: ai primi cinque capitoli sono stati poi aggiunti tutti gli altri.
La raccolta è così intitolata: “Hec sunt consuetudines civitatis Alexandrie”. Da rilevare, che l’intestazione non richiama l’istituzione comunale, in quanto, sul piano giuridico, Comune e città rappresentano la stessa realtà ad Alessandria.
Segue la datazione: l’anno del Signore 1179[5], corrispondente all’indizione 12[6], e il giorno 22 settembre.[7]
Viene poi ribadita la supremazia della legge imperiale[8], ma con un importante richiamo al principio dell’equità come correttivo della giustizia, affermano in tal modo lo ius proprium civitatis.
I 22 capitoli che compongono le Consuetudini sono di lunghezza e contenuto diverso, e si susseguono senza un preciso ordine. Un numero consistente tratta di materie privatistiche, sebbene la normativa comunale privilegiasse il diritto pubblico e quello processuale. La scelta trova la sua giustificazione nell’intento di regolare un settore che procurava parecchi contrasti a causa della varietà di usanze provenienti dai gruppi eterogenei presenti nella nuova città.
Nove capitoli sono dedicati al diritto di famiglia, in particolare ai rapporti patrimoniali tra coniugi e ai diritti successori. E’ possibile altresì rilevare che nel testo consuetudinario coesistono principi giuridici molto diffusi nel periodo medievale insieme ad usi specificatamente legati al territorio alessandrino.
Nel prossimo articolo verranno analizzati i contenuti dei singoli capitoli delle Consuetudini alessandrine.
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[1]Per la redazione di questo articolo mi sono avvalso, in particolare, dei seguenti testi: Mario E. Viora, “Consuetudini e Statuti di Alessandria” estratto dalla Rivista di Storia Arte e Archeologia per le Province di Alessandria e Asti, anno 1969/1970, e Gian Savino Pene Vidari, “Aspetti di storia giuridica alessandrina”, Giappichelli, 1996.
[2] I maestri stampatori Moscheni erano di origine lombarda. In seguito, la loro famiglia ottenne il feudo di Bergamasco.
[3] Enrico Besta, “Fonti (in Storia del Diritto Italiano)”, Milano, 1925 e Alessandro Lattes, “Il Diritto consuetudinario delle città lombarde”, Milano, 1899,
[4] Franco Niccolai, “Note sulle Consuetudini di Alessandria del 1179”, Milano, 1939,
[5] All’epoca nel territorio piemontese si faceva decorrere l’anno il 25 dicembre (detto stile della natività). Ricordiamo anche gli altri stili: fiorentino (con inizio il 25 marzo per l’annunciazione); veneto (che iniziava il 1 marzo); quello della Pasqua o gallicano (che decorreva appunto dal giorno in cui cadeva la Santa Pasqua).
[6] L’indizione era un periodo di 15 anni risalente a un sistema di tassazione egizio. Un intervallo di tempo che, dopo un quindicennio, riprendeva da capo allo scopo di computare gli anni, giungendo sino a 15 per poi riprendere nuovamente da 1.
[7] Il giorno della festa di San Maurizio, che nel 1179 cadeva di sabato.
[8]Legge e consuetudine sono da sempre considerate due fonti del diritto. La legge designa, in generale, la norma giuridica posta da un’autorità, mentre per consuetudine intendiamo un comportamento costante e uniforme nel tempo da parte di un certo aggregato sociale. Nell’età medievale era molto sentita la dicotomia lex-consuetudo, con la palese supremazia della lex imperiale. La creazione del diritto consuetudinario medievale si può collocare tra il IX e XI secolo attraverso l’istituzione del feudo prima e dopo la nascita dei Comuni che hanno portato alla formazione di un diritto civico (consuetudinis loci o civitatis), ossia delle consuetudini appartenenti a una stessa civitas e sorte dalla comunanza degli interessi dei cittadini riuniti in corporazioni e associazioni. Dalla redazione scritta di tali consuetudini cittadine si originò il nucleo principale del ius proprium rispetto allo ius commune, con l’affermazione rinnovata del principio della territorialità del diritto.