Una cosa bella è una gioia per sempre [U Gnacapiöğ]

Bona Giorgiodi Giorgio Bona

 

Caro Direttore,

in questo momento mi sento un po’ come Monteyro Rossi, il personaggio di Antonio Tabucchi in “Sostiene Pereira”, assunto come collaboratore di una testata giornalistica dal protagonista e utilizzato per scrivere necrologi sulle ricorrenze della morte di alcuni personaggi della storia.

A Monteyro Rossi venne assegnato questo ingrato lavoro perché non aveva spiccate doti giornalistiche e nessuno dei suoi articoli vide mai la luce.

Tornando a noi io mi sento un po’ così perché mi trovo a scrivere, e lo faccio a cuore aperto, ricordando un amico e non so se potrò farlo mostrandomi all’altezza della situazione.

Ahimè! Questo 2017 si apre all’insegna del lutto. Il professor Francesco Roggeri, Una cosa bella è una gioia per sempre [U Gnacapiöğ]docente del Plana di Alessandria ci ha lasciato, e ha lasciato un vuoto incolmabile di affetti e tanta, tanta stima.

Sono passati quarant’anni. Allora si frequentava l’università a Genova, Francesco il Magistero, io Lettere e Filosofia. Ci accomunava una passione per i poeti romantici inglesi, due su tutti: Keats e Shelley. Quando ci incontravamo, il viaggio in treno, toccava sempre quei temi. Ricordo, che al contrario di me, un po’ scapestrato e ribelle, Francesco era molto pacato e riflessivo, un professore già allora.

A quel tempo io stavo traducendo un testo di Keats, l’Endimyon che il compianto Giorgio Cusatelli, docente di Filologia Germanica all’università di Pavia mi invitò a fare per la vecchia Guanda, quella casa editrice che prima di passare al gruppo Longanesi aveva la sua sede a Parma e la collana dei poeti ebbe direttori illustri come Attilio Bertolucci e Giovanni Raboni.

Quando chiuse i battenti rimasi con una parte di traduzione già pronta e non la portai mai a termine. Quel lavoro fatto uscì pochi anni dopo per una rivista, una di quelle temerarie realtà degli anni 70 – 80 che sono scomparse ma hanno lasciato una scia di ricordi positivi e di cose belle.

Francesco, dopo Giorgio Cusatelli, fu il primo a leggere quella traduzione. Ne parlammo a lungo e parlammo anche a lungo delle tecniche del tradurre che avevano la sua base in uno straordinario libro di Mounin, “Storia e tecnica della traduzione”. Sono bei ricordi, quelli che amiamo tenere a mente e sono certo che anche per Francesco sarebbe stato così.

Il tempo passa, inesorabile. Ci si perde, ci si ritrova, sempre più di rado. Ma i ricordi belli tornano sempre a galla con piacere.

Soltanto qualche mese fa mi trovavo dal mio amico scrittore Danilo Arona e stavamo parlando di una esperienza fatta con un editore di Viareggio che non sto a raccontare, una positiva esperienza che come tutte quelle belle cose hanno breve durata o finiscono. Ebbene Danilo, prendendola un po’ alla larga, mentre io lo aspettavo al varco, arrivò al punto per sdrammatizzare e tirarmi un poco per il collo. Disse che io a Viareggio ero ormai un’istituzione e che sul lungo mare mi avrebbero dedicato un busto e l’avrebbero posizionato davanti alla statua di Shelley.

Viareggio. Dove il grande poeta inglese annegò. Mi è tornato in mente Francesco a distanza di anni e a quelle tenaci discussioni che hanno allietato i nostri viaggi da studenti pendolari.
E allora, per dirla come quella celebre canzone di un altro Francesco che porta i nostri anni, “Voglio pensare che ancora mi ascolti e che come allora sorridi”.

Basta così. Congediamoci con un verso di quell’Endimyon che ho tradotto.

Una cosa bella è una gioia per sempre. La sua bellezza cresce, non passerà nel nulla ma conserverà per noi una quieta dimora e un riposare di dolci respiri.

So che ti fanno piacere questi versi, portali ovunque andrai, tienili stretti al cuore.