(il guaito del cane battuto e la sordità dei passanti)
L’orribile morte di una ragazza romana, bruciata viva per motivazioni incomprensibili all’umano raziocinio e uccisa nell’indifferenza di più di un testimone transitante sulla scena del delitto, mi richiama alla mente un atroce passaggio scritto da un autore tra i miei prediletti, Harlan Ellison.
“La sera successiva al giorno in cui aveva dipinto le persiane del suo nuovo appartamento della 52° Strada Est, Beth vide uccidere una donna in maniera lenta e orrenda, a coltellate, nel cortile del palazzo. Beth era una delle ventisei persone che assistettero a quella scena mostruosa e, come tutti gli altri, non fece nulla per impedire che accadesse”.
Inizia così il racconto Il guaito dei cani battuti. All’apparenza, con un pugno d’altri (da ricordare almeno Croatoan e 480 secondi), un testo ante litteram e profetico sulle contemporanee apocalissi metropolitane. In verità tutt’altro. Perché, per quanto trasfigurato (di poco) in chiave fantastica, Il guaito dei cani battuti è ancora oggi, a distanza di 40 anni, un allucinante spaccato di realtà, essendo dichiaratamente ispirato al turpe e rimosso omicidio di Kitty Genovese, avvenuto a New York in una notte di marzo del 1964. Costei, non ancora trentenne, venne stuprata e uccisa in un’allucinante sequenza a più assalti nei pressi della sua abitazione, nel quartiere di Kew Gardens, distretto del Queens. Si appurò che almeno una trentina di persone assistettero dall’alto delle loro finestre all’aggressione e all’agonia della donna, ma nessuno si assunse l’onere di una qualsiasi iniziativa. Come racconta Stephen King nella nota finale del romanzo La ragazza della porta accanto di Jack Ketchum, la ragazza venne accoltellata (e violentata mentre rendeva l’anima a Dio) quindi lasciata lì ad agonizzare per alcune ore. “Urlò ripetutamente per chiedere aiuto e un sacco di gente vide cosa stava succedendo, eppure nessuno alzò un dito per soccorrerla. Non chiamarono nemmeno la polizia.”
Le scandalose circostanze di quest’episodio furono riportate due settimane dopo in un articolo pubblicato sul New York Times dal giornalista investigativo Martin Gansberg e avviarono un filone socio-psicologico d’indagine, più che mai d’attualità, che fu battezzato in diversi modi: “effetto spettatore” (Bystander Effect), “complesso del cattivo samaritano” o “sindrome Genovese”. Primo soggetto di tale patologia collettiva: l’indifferenza, come meccanismo di difesa individuale o di gruppo, che scatta quando si viene coinvolti “in prima linea” in accadimenti di grande violenza e di altrettanto coinvolgimento emotivo. Com’è stato giustamente scritto da più parti, la storia di Kitty Genovese è divenuta una parabola puntuale dell’insensibilità nei confronti degli altri (le vittime), dimostrata in quell’occasione da alcune persone di New York, ma per estensione significativa applicabile all’umanità tutta. Harlan Ellison che non se ne occupò solo nel racconto citato, ma pure nel libro Harlan Ellison’s Watching, affermò che un uomo alzò addirittura il volume della radio in modo da non sentire le urla della Genovese e che i “bravi cittadini” coinvolti in quanto testimoni di un crimine dalla lunghissima durata (e quindi evitabile) erano ben più di ventisei.
Come riporta ancora King, il loro motto forse fu: “Non ditelo a nessuno”. Ignoranza di massa, incapacità ad assumersi responsabilità, vigliaccheria: dal caso Genovese nacquero indagini di psicologia sociale sull’effetto “bystander”. Gli studiosi sociali Bibb Latané e John Darley iniziarono una serie di ricerche sui motivi per cui spesso le persone non intervengono di fronte alle emergenze. I risultati dei loro studi, pubblicati nel libro The unresponsive bystander: Why doesn’t he help?, hanno aperto numerosi interrogativi, giungendo a sconfortanti risultati sul piano pratico. Il più diffuso nasce per imitazione, ovvero “non aiuto quella persona in difficoltà perché nessuna delle persone presenti lo fa.” Il fenomeno si chiama “ignoranza pluralistica”.
L’ignoranza pluralistica manifestata nel tristissimo caso di Sara Di Pietrantonio ha avuto sinistre anticipazioni con il più clamoroso dei casi di indifferenza metropolitana (Elisa Claps, Potenza) per il quale le similitudini con Kitty Genovese sono lampanti. Ma l’Italia purtroppo ne è piena: esistono comunità, paesi, gruppi sociali (condominali?) “che sanno”. Che sanno e che tacciono perché così fanno tutti. La dodicenne Ottavia De Luise, scomparsa da Montemurro nel 1975, torturata nell’anima e nel corpo da più di un adulto. Cristina Golinucci scomparsa pure lei nei pressi di un luogo sacro nel 1992. La disgraziatissima Palmina Martinelli, anche lei bruciata viva nel 1981 in Puglia. Ma può divenire un elenco senza fine quello delle “ragazze” o “ragazzine”, nelle cui scomparse o morti sono implicate decine di persone che sanno e che tacciono: da Denise Pipitone a Emanuela Orlandi, da Simonetta Cesaroni a certe intricatissime diramazioni del caso “mostro di Firenze”, c’è un tristissimo imbarazzo della scelta.
A queste povere ragazze, doppiamente vittime, forse Harlan Ellison, in una dimensione parallela ma udibile “da questa parte”, potrebbe dedicare un altro passaggio da Il guaito dei cani battuti:
“… La cosa si protrasse all’infinito, così come si era protratta all’infinito la morte di Leona Ciarelli. E Beth capì, grazie a quella coscienza comune che univa i sopravvissuti a ogni costo, che se coloro che avevano assistito alla morte di Leona non avevano mosso un dito, non era stato perché li aveva paralizzati il terrore, o perché non volevano essere coinvolti, o perché erano assuefatti alla morte da anni di massacri televisivi. Quelle persone erano i fedeli presenti a una messa nera inscenata perché così voleva la città, inscenata non una, ma mille volte al giorno in quel manicomio di acciaio e di pietra.”
Quando l’arte illumina il reale.
(Leona Ciarelli è nome fittizio della vittima alludente a Kitty Genovese.)