Quando il popolo dell’autunno scese ad Alessandria in primavera [Il Superstite 283]

Arona Danilo nuovadi Danilo Arona

 
I vecchi Luna Park itineranti, quelli per capirci alla Ray Bradbury de Il popolo dell’autunno, quelli degli anni Sessanta che ancora non si aprivano alle tecnologie già arrogantemente invasive, quelli dei calci-nel-culo mentre volavi sempre più in alto, quelli degli autoscontri e della ruota panoramica. Arrivavano nella piazza principale della piccola città di provincia e immancabilmente attaccava a piovere, mentre la gente commentava: «Eh, per forza, sono arrivati i baracconi».

“Baracconi” non era un bel termine. Indicava una sorta di altero disprezzo di ritorno, giusto quello della generazione post-bellica che dalle baraccopoli aveva traslocato ai casermoni popolari di un centro città ancora in parte devastato dalle bombe. E poi “la gente dei baracconi” la vedevi un po’ strana, nata da nessuna parte, cittadina del mondo, crogiolo di razze. Lineamenti un po’ rincagnati, molti che si assomigliavano in modo un po’ sospetto, cognomi che quando li sentivi pensavi a terre lontane. I miei parenti che sostenevano che si potevano sposare tra fratello e sorella.

Il momento magico per un ragazzino sugli 11-12 anni che ci voleva andare era il pomeriggio, magari un po’ piovoso ma non troppo, tra le 4 e le 5 del pomeriggio. Il momento di raggiungere la piazza e di cercare quelle attrazioni che non sempre restavano aperte, quelle funhouse sul confine tra il divertimento e la paura e che, a parere mio di adulto molto nostalgico, erano “finestre” su altre dimensioni che potevi anche per sbaglio, o per un fortissimo atto di volontà, scavalcare. E perderti così da qualche altra parte. Potendo scegliere di tornare indietro. O di non tornare.

Si chiamavano Treno Fantasma, Rotor, La casa del Terrore, Casa degli specchi. E qualcos’altro che non ricordo. Di certo da qualche parte in quelle zone lì vidi la Donna a Due Teste che io pensai all’inizio essere autentica. Invece si trattava di un ingenuo ma comunque efficace gioco di specchi tra la mamma e la zia del giostraio Luigi Secchi, una grassoccia e l’altra molto magra. Una testa affermava di provenire dal Cottolengo e la gente ci credeva e si commuoveva. Perché in realtà loro, gli adulti, sapevano che poi, un po’ dappertutto nel mondo, esistono sul serio certe anomalie. Creature che decenni addietro finivano sul serio a funzionare da orribili attrazioni, tipo l’Uomo Elefante o la Donna Cannone.

Lo scopo era di raggiungere quello che in termini cinematografici si chiama climax. UnCool zone lasso di tempo molto compresso in un pomeriggio grigio, non festivo, con poca gente in giro e, appunto, con una pioggia pigra ma insinuante che teneva lontano le folle. Un momento di sospensione tra due mondi e altrettanti tempi in cui magari un bambino, audace e solitario, poteva persino sparire. Dentro il Treno Fantasma o risucchiato all’interno di uno Specchio Deformante.

Quando io avevo 11-12 anni la voce della possibile sparizione di un bambino nei pressi del Luna Park era una specie di orribile tara che si portava appresso la gente dei baracconi, nell’opinione generale apparentata agli zingari. Si parlava, mi ricordo, di femminucce sparite, qualcuno addirittura morta, vicino o dentro le funhouse. Leggende urbane, anche se nel 1991 – devo averne già scritto, ma è uno di quegli episodi che ti si piazzano indelebili nella mente – una ragazzina ci morì sul serio. Una disgrazia assurda.
Quando ne lessi, a quarant’anni più che suonati, tornai undicenne e con più dubbi di quand’ero bambino.

In un paese che si chiama Bussolengo, vicino a Verona, in un giorno di febbraio di quell’anno una tredicenne venne stroncata da un infarto dentro la Casa delle Streghe. Così Danilo Castellarin rievocava l’evento sulle pagine locali de “La Repubblica”:

«Tutto si è svolto nel giro di pochi minuti, lasciando i genitori della bambina impietriti dal dolore. Lei non soffriva di cuore, racconta adesso il padre. Era una bambina sanissima. Quando l’ ho vista crollare ho pensato a uno scherzo. Lei era così. Si divertiva sempre a giocare e a farmi prendere paura per poi farsi abbracciare. Per questo, quando lei crolla improvvisamente sul pavimento di legno, come svenuta, il padre e la madre non si allarmano e fingono di stare al gioco, di credere all’ennesimo scherzo della figliola. Passano alcuni secondi, ma la ragazza resta a terra, senza dare il minimo cenno di vita. Intanto la folla si accalca, spinge per uscire dal tunnel, senza comprendere il perché di quell’improvviso ingorgo. Tra scheletri e ragnatele i primi a capire la gravità della situazione sono gli zii, che avevano accompagnato la nipote insieme alla sorella gemella, all’interno della buia galleria. Una Casa delle Streghe in piena regola, con minacciosi pupazzi di cartone, le ragnatele che sfiorano il viso e gli scheletri in plastica fluorescente: un mondo di fantastici orrori e di mostri infantili, avvolti dalla penombra. Dopo un attimo anche il padre capisce che non si tratta di una burla, che la bambina, riversa a terra, non sta scherzando come tante altre volte. Corre e si inginocchia davanti alla figlia morente. Il suo viso è terreo e il respiro affannoso. Cosa ti succede?, invoca il padre disperato. Lei non risponde, mentre le labbra diventano livide sul volto bianchissimo. Anche la folla accorsa al luna-park per la festa del patrono non capisce subito la gravità della situazione. E comincia a spingere per entrare nel tunnel, bloccato all’uscita dai genitori e da due infermieri che tentano di salvare la bambina con la respirazione bocca a bocca. Inveisce persino il gestore della giostra: Fate largo. Devo lavorare. La gente ha pagato il biglietto. Poi, per sgomberare la ressa, riaccende la piattaforma elettrica dov’è sdraiata la ragazza. Intanto la madre della piccola si fa largo nella folla, agguanta il telefono all’interno di una roulotte, e chiama l’ambulanza del vicino ospedale. Passano dieci, quindici, venti minuti. Ma l’ autolettiga non arriva. Una vergogna, si sfoga stravolto dal dolore il padre. L’ospedale è a meno di 500 metri di distanza ed è passata una buona mezz’ora prima che l’ambulanza arrivasse. Tant’è vero che lo zio della bambina decide di correre a piedi al pronto soccorso dell’ospedale per chiamare un medico. Per giustificare il ritardo, racconta, mi hanno detto di aver ricevuto parecchie telefonate fasulle da parte dei soliti ubriachi. Davvero una vicenda inquietante. Alla fine, l’ ambulanza arriva. Ma il cuore della ragazzina non ce la fa più. E dopo tre minuti di corsa nella folla a sirene spiegate, lei muore fra le braccia degli infermieri».

Forse un undicenne degli anni Sessanta avrebbe potuto spiegare a modo suo una storia del genere. Uno che sapeva – che sa – che c’era dell’altro. Che quelle Case delle Streghe erano Porte. E che le Donne dalle Due Teste, esibite nei tardi pomeriggi piovosi, non erano soltanto effetti ottici. Se ne trovavano – se ne trovano – ancora in giro. Una stava tanto tempo fa a La Thuile. Di lei ci ha raccontato l’avvocato Laurent Martinet, già sindaco di Aosta:

«A La Thuile, alla frazione Praz (meglio ricordata forse oggi con il nome di Tsan di Praz), non lontano della riva destra del torrente che scende dal Ruitor, in un’epoca difficile da precisare, viveva una giovane fanciulla, di nome Maria Berger. I suoi genitori erano certo molto più vicini alla povertà che all’agiatezza. Questa fanciulla è da ricordare ancor oggi perché aveva due teste che crescevano sopra lo stesso busto, due belle teste regolarmente sviluppate, ognuna delle quali aveva dei movimenti autonomi, potendo muoversi, parlare, sorridere, indipendentemente dall’altra. Le loro voci erano melodiose; a volte una delle due cantava mentre l’altra taceva e l’ascoltava; più spesso esse cantavano in coro e incantavano tutti con i loro melodiosi accordi. La tradizione dice che mai queste due teste manifestarono una qualche gelosia o qualche moto d’ira e di discordia tra di loro. Quando una piangeva l’altra non avrebbe potuto ridere. L’unione più perfetta non cessò un solo istante di regnare tra di loro. Si dice che mai questa ragazza, che passò la sua vita a pascolare le greggi, a filare e a lavorare la terra, poté pensare di allontanarsi dal paese dove era nata,
temendo di attirare una indiscreta curiosità non appena avesse cessato di vivere in mezzo ai suoi vicini, abituati ormai a vederla, né mai i suoi genitori la invitarono a farlo. Se fosse vissuta ai nostri giorni, probabilmente sarebbe stata portata in tutte le capitali del mondo e avrebbe fatto senz’altro la fortuna dei suoi genitori. Ma a quei tempi la povertà l’accompagnò fino alla morte. Arrivata al ventiquattresimo anno d’età, una delle due teste si ammalò e verso la fine dello stesso anno non diede più segni di vita. Durante tutto questo tempo l’altra perse il sorriso e non cantò più. Mai ella diede il permesso di asportare la testa sorella, sebbene la decomposizione progredisse sempre di più e cominciasse a intaccare il corpo. Infine anche ella morì verso la fine dell’anno seguente. Così le due teste erano ancora attaccate allo stesso busto quando scesero nella tomba. Si possono facilmente immaginare quali poterono essere le sofferenze della testa che sopravvisse alla sua compagna. Non si può più trovare nei registri parrocchiali l’atto di nascita di questa fanciulla fenomenale perché la maggior parte dei documenti conservati sono andati dispersi e bruciati durante le diverse guerre e invasioni di cui questo paese, situato vicino alla frontiera con la Savoia e ai piedi del Piccolo San Bernardo, è stato teatro. Ma interrogate i vecchi di La Thuile, interrogate tutta la popolazione; tutti vi parleranno di questa fanciulla, tutti vi indicheranno il luogo dove abitava. Tutti vi diranno di aver udito questa storia dai loro padri, che a loro volta l’avevano udita raccontare dai loro avi, gli antenati dei quali l’avevano vista ed erano stati rapiti più di una volta dal canto armonioso di quelle due voci dolci e così melodiose.»

In una favola alla Bradbury, invece che morire in modo tanto triste e penoso, la fanciulla dalle due teste di La Thuile sarebbe scomparsa in una notte magica durante il passaggio in zona di uno di quei Luna Park senza tempo abitati da Mister Dark, l’Uomo Elettrico e la Strega della Polvere. Non è mai accaduto, ma credo che sia accaduto – e ormai non accade più – che alcuni “pezzi” di quei Luna Park fossero presenti, quasi per sbaglio, confusi tra i baracconi dei primi anni Sessanta. Rotor, Treno Fantasma, i Labirinti degli Specchi. Appunto. Perché, da quel che ricordo, in quei momenti magici (che duravano poco, dalle 4 alle 5 del pomeriggio, e soltanto se pioveva…), c’erano delle favole che prendevano vita. E gli adulti le temevano, certe epifanie.

Ad esempio mio nonno, il padre di mio padre, non voleva mai accompagnarmi ai baracconi. Nel 1961, credo che l’anno fosse quello, mi disse quasi in un sussurro: «Non entrare mai nelle Sale degli Specchi» e io gli chiesi il perché, ma lui si ritraeva perché non sapeva proprio che rispondere. Anni dopo, quando lessi quel libro fondamentale che è Il popolo dell’autunno, scoprii il seguente passo:

«Non vada al Labirinto degli Specchi!»
«Perché?»
«La gente ci si perde!»

E trovai la risposta che il nonno non riusciva a darmi perché non la trovava in sé stesso. In quella giornata razionalmente capii quel che mi suggeriva l’istinto a 11-12 anni. Che quel momento magico non era solo suggestione o metafora. Si aprivano porte, finestre, e noi non ce ne accorgevano. Restavamo incollati alle pareti del Rotor, nuotavamo nei vetri liquidi dei labirinti, urlavamo di terrore nei treni fantasma. E poi verso le sei i baracconi cominciavano ad affollarsi e la magia scompariva. Verso le otto tutti tornavano a casa, inconsapevoli di avere sfiorato altri mondi.
Qualcuno meno inconsapevole. Ma è sempre così, da quando esiste il mondo.
Qualcuno sa.