Il più grande spettacolo del mondo [Lettera 32]

Giuliano Beppedi Beppe Giuliano

 

Nella notte tra domenica e lunedì si gioca il cinquantesimo Super Bowl, la finale del campionato di football americano che è anche lo spettacolo televisivo, ancor prima che sportivo, per eccellenza, e non solo negli Stati Uniti. Il Super Bowl d’oro, quest’anno, perché é l’edizione 50 (eccezionalmente contraddistinta dal numero arabo e non da quello romano), e si gioca in California, il Golden State, nel nuovissimo stadio della squadra di San Francisco.

Che vincano le Pantere della Carolina o i Broncos di Denver, comunque lo “storytelling” della finale è già facilmente prevedibile: vincessero gli sfavoritSuperbowl 1i Broncos, molto racconto sarebbe basato sull’impresa di Peyton Manning, il vecchio campione dato per finito o quasi, che prossimo ai 40 anni risorge per un’ultima, romantica, inaspettata impresa.

Altrimenti si parlerà della squadra più giovane, che non aveva vinto mai una finale, guidata dal giovane lanciatore di colore (con tanto di dichiarazioni attorno al razzismo, nei giorni prima della finale, per rispondere alle critiche sul suo modo esuberante di stare in campo). Peraltro, siccome ogni storia americana si porta in sè una qualche redenzione, l’articolo da leggere questa settimana è uscito sul New York Times, e racconta dell’anno in cui Cam Newton, il lanciatore di Carolina, giocò in un minuscolo college sconosciuto in un paesino del Texas, avendo dovuto lasciare per problemi comportamentali la prestigiosa università della Florida.

Nel frattempo, si discuterà parecchio dello spettacolo di metà tempo, e ancora di più degli spot pubblicitari, che costeranno oltre 5 milioni di dollari per 30 secondi. Un fenomeno in sé, tanto che una società di software da due anni mette a disposizione gratuitamente uno spazio a una piccola impresa con un apposito concorso.
Un genere che ha avuto nel tempo grandissima celebrità, dai primi anni settanta di Farrah Fawcett che faceva la barba a Joe Namath, campione molto portato allo spettacolo, il suo soprannome era infatti Broadway, una delle prime stelle in assoluto della partita con lo sfrontato pronostico della vittoria dei suoi sfavoriti Jets nel SB III. All’annuncio della nascita del Macintosh nel 1984 con uno spot giocato sui temi del libro di Orwell, e diretto da Ridley Scott. Costato 900.000 dollari (una follia, all’epoca) per produrlo, mentre lo spazio costava poco meno di 400mila. Peraltro Apple, l’anno dopo, con Lemmings produsse uno degli spot più criticati di sempre (uno dei suoi fallimenti, ormai altrettanto celebrati dei successi).
O ancora, pochi anni fa, la voce di Clint Eastwood per la Chrysler ormai italiana in It’s halftime America, spot “politico” (e bellissimo, a mio parere) che fece discutere parecchio.

Superbowl 2Pensare che lo spazio alla prima edizione, disputata a Los Angeles il 15 gennaio del ’67, costava poco più di 40.000 dollari, peraltro in una trasmissione televisiva fatta contemporaneamente da CBS e NBC, due di quelli che allora erano i tre principali network televisivi, e diventata leggendaria perché ne sopravvive una sola copia, una videocassetta registrata da un privato, che suo figlio ha ritrovato fortunosamente e che sta cercando di vendere senza successo, dato che lui la valuta un milione di dollari mentre la lega professionistica, la NFL, gliene offre… 30mila.

Parlando di televisione, da noi questo sport fino ad allora sconosciuto è arrivato negli anni ’80 con la tivù commerciale del biscione. Un po’ per questo, un po’ perché tendiamo a dimenticarci delle gare giocate molti anni fa, i primi protagonisti sportivi del Super Bowl ricordati anche in Italia sono Joe Montana, lanciatore di San Francisco, quello che vorreste in campo sempre per giocare il punto decisivo, che lui non sbagliava mai, e che condivide il record di essere stato nominato più volte miglior giocatore con Tom Brady, da bambino cresciuto proprio nella Bay Area e suo fan scatenato. Montana tra l’altro vincitore di una delle battaglie più attese di sempre quando al SB XIX i suoi 49ers batterono nettamente i Dolphins guidati da un altro “paisà”, il giovane Dan Marino, attesissimo talento che non tornerà mai più a una finale, dopo quella persa da debuttante.

E la squadra di Oakland, i Raiders, i più cattivi, odiati e invidiati di tutti, pure i più eleganti con le loro divise nero e argento che diventeranno l’abbigliamento favorito dei “gangsta rapper” del sobborgo di Compton, quando a metà anni ’80 si trasferirono per un certo periodo in uno stadio losangelino.

Il Super Bowl è -anche – una partita, è quasi ognuna ha una storia sportiva interessante, certo.

Vale la pena, almeno per titoli, di ricordarne qualcuna:
le quattro sconfitte consecutive dei Bills di Buffalo, all’inizio degli anni ’90, la prima dolorosissima per 20 a 19, nella finale più patriottica di sempre, disputata pochi giorni dopo l’inizio della prima Guerra del Golfo, col calcio sbagliato allo scadere che diventerà l’elemento cardine del film d’esordio di Vincent Gallo, ‘Buffalo 66’;
la sporca ultima yard che mancò alla squadra di Tennessee per completare la più clamorosa delle rimonte nel SB XXXIV, e la tragedia personale del suo lanciatore Steve McNair, riscattatosi grazie allo sport dalla grande miseria in cui era cresciuto e che poco tempo dopo finirà ucciso nel sonno da una giovane donna che poi si suicidò;
l’unica altra giocata dai Panthers, persa proprio contro i New England di Tom Brady, da molti ritenuta la finale più entusiasmante di sempre, terminata 32 a 29, e ricordata anche per quello che venne ufficialmente definito “malfunzionamento del guardaroba” di Janet Jackson durante lo spettacolo dell’intervallo…
mentre tra le ultime finali si ricorda soprattutto il SB XLVII sia per l’equilibrio (Baltimora batté San Francisco 34-31) sia perché per la prima volta si affrontarono due allenatori fratelli, ed ebbe la meglio il maggiore, John Harbaugh. Invece non hanno mai potuto giocare uno contro l’altro il finalista di quest’anno, Peyton Manning (una vittoria quando era ai Colts) e suo fratello minore Eli, che ha vinto due volte alla guida dei giganti di New York.

Che dite, pareggerà il conto, all’ultima occasione utile, Peyton?