Ho conosciuto Emilio de’ Rossignoli vincendo a poker negli anni sessanta una copia, quella che tuttora possiedo, de Io credo nei vampiri. In quella tenera età preadolescenziale non si giocavano soldi perché non ce n’erano e allora si mettevano in palio beni piuttosto preziosi.
L’amico Oreste peccò d’audacia e piazzò sul tavolo la mitica edizione di Ferriani e io lo stesi, perché la volevo.
Mai vincita a poker risultò per me tanto gradita. Dentro quel libro mi ci tuffai. Lo lessi e lo rilessi, con avidità. Mentre i miei coetanei non leggevano quasi nulla. Loro cominciavano a svezzarsi con gli Shadows e con i Beatles e io ribattevo loro con i Vurdalack e le istruzioni segrete per diventare un vampiro. In seguito mi sarei messo sin troppo alla pari con Beatles e British Invasion, ma in quel momento funzionava così. Con gente come Emilio de’ Rossignoli.
Chi era costui? Un grande, di sicuro. Sapeva tutto e di più sul magico e terrificante mondo dei vampiri. E scriveva non da adulto snob, ma da adulto saggio perfettamente in grado di farsi comprendere da un ragazzino. E ancora – il dato più importante, perlomeno per me – Emilio ci credeva. Al punto tale che la sua fede era divenuta il titolo del tomo. Al punto che io a quattordici anni ritenni di non nutrire alcun dubbio al proposito: i vampiri, quei signori smunti e paurosi con l’hobby di affondare le zanne nel collo delle fanciulle, esistevano senza ombra di dubbio. Gli argomenti di Emilio non ammettevano contestazioni.
Gli anni trascorsero. E vi risparmio, ma va da sé che il ’68 e tutto il resto offuscarono un po’ i vampiri dalla mia mente e dal mio Es. Però la passione per il cinema crebbe a dismisura. Quando intendevo andare a punto nel buio di una sala pomeridiana con una signorina che mi cuoceva il basso ventre, non avevo dubbi sul film prescelto: il repertorio oscillava da Per favore non mordermi sul collo a Le amanti di Dracula, da La casa dei vampiri alla copia restaurata di Cyclops. Denti e bocca da affondare dalle parti della giugulare, argh!
Infine, alla fine del decennio più influente della mia vita, ritrovai Emilio in edicola.
Nel dicembre del ’69, in una pessima concomitanza con la strage di Piazza Fontana e l’inizio della storicamente definita “strategia della tensione”, apparve nelle edicole il numero 1 della bellissima rivista di Gino Sansoni “Horror”, fumetti ma non solo: articoli di cinema, di folclore, di storia e antropologia, insomma troppo d’avanguardia e troppo intelligente per durare a lungo. Ma, per quel che durò, è passata alla storia.
Su “Horror” Emilio teneva una rubrica intitolata “Orizzonti del fantastico”, in perfetto stile Io credo nei vampiri, ovvero indagini a 360° su mitologie, folclore, simbolismi, archetipi del fantastico, demonologia e pura critica letteraria: una twilight zone dove l’uomo, con il suo linguaggio perfetto e sempre di piacevolissima degustazione (in un momento storico, non dimentichiamolo, in cui la critica faceva a gara con sé stessa nel forgiarsi un’ostica armatura d’incomprensibilità, forse per colpa dell’avanzante strutturalismo ispirato da Ferdinand De Saussure), raccontava di Fu Manchu, dell’Ayesha di Sir Henry Haggard, del conte Zaroff, di Lilith, di Dracula of course, delle Sirene, degli Gnomi, della Bella e la Bestia, del simbolismo dei ragni e dell’Ebreo Errante. Ovvero, l’Insolito in ogni sua infinitesimale declinazione.
Del resto l’Insolito, termine oggi infelicemente desueto, era la mission conclamata della rivista.
Poi nell’agosto del ’71, con il mensile horroriano al massimo del suo fulgore (con l’Italia che precipitava in un plumbeo periodo), lo vidi. Sansoni gli aveva affidato l’editoriale del mese canicolare e, nella consuetudine della pagina d’apertura, accanto al titolo del pezzo si piazzava la foto dell’editorialista. Ed eccolo lì l’Emilio, in una fotografia probabilmente datata, dalla quale un piacevole quarantenne o poco più guardava in macchina con l’accenno di un sorriso un po’ sardonico e pure melanconico. Vagamente assomigliante a Enzo Tortora e con un taglio di capelli che, data l’epoca beatnik, appariva di sicuro fuori moda. Ma, sciocchezze estetiche a parte, quello era lui. Raccoglitore di leggende, collezionista di ritagli di giornale, vampirologo numero uno, giornalista sopraffino.
Da lì a poco “Horror” chiuse. L’editore tentò di tenerlo in vita eliminando tutta la saggistica, a parere del marketing la causa della costante flessione di vendite (pensate un po’ a me e a quelli come me che lo compravano per gli articoli che su alternavano tra un fumetto e l’altro – pensate un po’ a questi nomi accanto a Emilio, ovvero Forrest Ackerman, Claudio Bertieri, Giovanni Arpino, Fusco & De Turris, Ornella Volta, Marco Rostagno, Luigi Cozzi, Robert Bloch, Ernesto G. Laura, e qui mi fermo), ma la metamorfosi non funzionò e nella fase finale l’editore tolse persino il vituperando termine “Horror” (i tempi purtroppo non sono affatto cambiati…), denominando la rivista per un po’ di numeri come “Super Vip”. Emilio scomparve dal mio orizzonte visivo e la vita mi travolse.
Ma il seme oscuro del de’ Rossignoli germogliò. E meno male.
Fino agli anni settanta rimasi convinto che l’autore geniale de Io credo nei vampiri fosse soltanto un capace e curioso giornalista nel quale specchiarmi per ritrovare sul mio percorso professionale un modello da imitare. Non sapevo, né potevo allora, con i miei scarsi mezzi, venire a conoscenza di tutto il resto. Ovvero, di Martin Brown, di Emil D. Ross, di Jarma Lewis e di Larry Spada, tra i suoi tanti nomi d’arte con i quali firmava straordinari gialli pre-pulp in collane che si chiamavano “I Gialli del Vizio” o “I Gialli del Quarto di Luna”. E del Duomo di Milano abbattuto da una bomba H nel 1965 in un profetico romanzo in grado di anticipare persino George A. Romero, H come Milano. E la distopia allucinante di Lager dolce lager in cui, in un futuro alla Mad Max, un uomo finisce un giorno in un campo di punizione per una colpa da niente.
Nell’ultima fase della sua vita, forse per ragioni “alimentari” Emilio cambiò ancora le carte in tavola, iniziando a scrivere romanzi a puntate per settimanali femminili, storie romantiche quasi sempre intrise di mistero, occultismo e sense of wonder. Una fase intensissima, in cui l’uomo arrivò a partorire nel giro di un quinquennio quasi una cinquantina di opere, sempre siglate con il solo cognome: fase testimoniata da tre uscite nella collana “Romantica” di Sonzogno – quella per intenderci che pubblicava le opere di Liala – che s’intitolavano Strega alla moda, Concerto per una bambola e La donna di ghiaccio.
Romanzi affascinanti che, pur “dentro” il genere sentimentale, ne deviano puntualmente verso quelle derive di contaminazione che l’uomo amava sopra ogni cosa. Leggere per credere La donna di ghiaccio, che profuma irresistibilmente di Daphne du Maurier.
Emilio ci lasciò nel 1985. Anzitempo e nell’ombra. Scrittore e profeta alquanto negletto, ma questo in Italia capita spesso ai talenti autentici. Ancora oggi però la sua opera resiste intangibile alle ingiurie del tempo. Proprio come certi, eleganti vampiri in cui lui orgogliosamente credeva. Anni fa misi a disposizione la mia copia di Ferriani a Paolo De Crescenzo, indimenticabile patron di Gargoyle Books, per produrre una nuova edizione di Io credo nei vampiri. L’operazione andò abbastanza bene. Purtroppo per motivi tecnici non si poterono utilizzare le molte foto del testo originale perché, a scansionarle, i risultati grafici apparivano pessimi. Però la nuova edizione era arricchita da tre prefazioni interessanti che in qualche modo compensarono la mancanza.
Inoltre si legò alla passione degli amici del blog Mattatoio 5 per Emilio al punto tale che se ne scoprì l’ultimo domicilio conosciuto, ovvero il cimitero monumentale di Lambrate, dato che mi era sconosciuto ai tempi della curatela del libro. Se volete saperne molto di più andate su questo blog, interessantissimo, e la vostra curiosità sarà appagata.