La “Buona Scuola” di San Giuliano Nuovo negli anni 1894-1895 [Alessandria in Pista]

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Remotti

di Mauro Remotti.

L’acceso dibattito che ha accompagnato l’approvazione dell’ennesima riforma, denominata “la buona scuola”, mi ha riportato alla mente il racconto di un anno scolastico, di esattamente 120 anni fa, in un paese a pochi chilometri da Alessandria.

Desidero infatti prendere in esame, insieme ai lettori di CorriereAL, le parti più significative del diario della maestra Albertina Prato[1], ritrovato nel corso delle operazioni di riordino dell’Archivio storico comunale di Alessandria insieme al carteggio relativo alla sua attività di insegnamento nel periodo 1888 – 1914. Il manoscritto, consegnato il 30 ottobre 1895 “All’Ill.mo Signor Fortunato Av. Enrico, Sindaco di Alessandria”[2], è accompagnato da una relazione finale indirizzata all’ispettore scolastico[3] e ha per oggetto il resoconto di un anno nella scuola rurale mista di via Ebrei (ora via Colla) sita a San Giuliano Nuovo.

Copertina-libro-Albertina-PratoIl diario è stato pubblicato nel 1990 per iniziativa dell’Amministrazione Comunale di Alessandria in un’edizione curata da Giulio Massobrio intitolata: “La mia Scuola. Anno scolastico 1894/1895”.[4] Essendo un documento essenzialmente burocratico, riporta pochi episodi personali, quali il ricordo nostalgico dell’amicizia con due compagne di collegio. Per contro, rappresenta con nitidezza figure, eventi e problemi di un paese della Fraschetta di fine Ottocento. Albertina Prato è una giovane insegnante, ma già con un soddisfacente bagaglio di esperienza didattica alle spalle; entusiasta del suo lavoro, flessibile nell’applicazione dei programmi[5], generosa e, pur provenendo da una famiglia benestante, molto sensibile ai disagi fisici, economici e psicologici dei bambini e delle loro famiglie.

La Prato ci appare come una docente costantemente aggiornata: legge il giornale scolastico “Il risveglio educativo”, da cui trae molti spunti per attuare nuovi metodi didattici e segue con attenzione le teorie dei più noti pedagogisti dell’epoca (Gazzone, Bertoli e Botta). Affronta la questione della lingua secondo le indicazioni dei programmi scolastici del 1867, che ammettono un uso strumentale e temporaneo del dialetto: “solo a necessaria chiarificazione delle parole italiane non ancora note agli alunni”. La maestra non è tenera nei confronti delle istituzioni: pone spesso l’accento sulle condizioni delle aule, che invece di essere luminose e spaziose per favorire l’apprendimento sono umide e anguste. Sottolinea, con rammarico, l’indifferenza dei genitori nei confronti dell’obbligo scolastico, anteposto alla raccolta delle foglie di gelso[6] in primavera e al lavoro nei campi in estate (il la scuola risulta iniziata il 22 ottobre e si conclude l’8 luglio).

Ma si rinfranca subito quando viene a conoscenza che un allievo vuole imparare a leggere e a scrivere per comunicare con il padre emigrato in America per lavorare alle dipendenze di Giuseppe Guazzone[7]. Si dimostra decisamente contraria all’introduzione degli esami estivi, prerogativa di commissioni esterne, che interpreta come segno di sfiducia nel lavoro e nelle capacità valutative degli insegnanti. Il diario, analizzato dal punto di vista formale, è il frutto di annotazioni quasi quotidiane di lunghezza uniforme (2 o 3 pagine) che si aprono generalmente con osservazioni sulle condizioni atmosferiche (che influiscono sulla frequenza degli alunni, in particolare nei mesi invernali) e sul contenuto della lezione del giorno.

Lo stile scorrevole ed equilibrato delle parti descrittive e narrative si infiamma nelle pagine in cui desidera sottolineare lo zelo con cui svolge i propri incarichi ovvero lo sdegno nei confronti di carenze scolastiche e piaghe sociali.  Il modello stilistico del diario risente moltissimo del bestseller di quel periodo, ossia “Cuore” di Edmondo De Amicis (pubblicato nel 1886). I toni lirici e commoventi della letteratura sentimentale, pieni di esclamazioni affettive e di espressioni edulcorate, ricorrono spesso negli appelli che la maestra rivolge direttamente ai suoi alunni. Albertina fornisce molti esempi pratici del suo insegnamento: si muove tra i banchi invece di stare alla cattedra, corregge la postura degli allievi, porta dei fichi a scuola per spiegare i numeri, accarezza il cane che una bimba aveva portato di nascosto in classe, interrompe la lezione per lasciar ascoltare il suono dell’organetto di strada.

Insomma, afferma il diritto dei bambini a momenti di svago e lascia spazio alla fantasia e all’improvvisazione, incoraggiando gli studenti a seguire i propri ritmi naturali. Cerca di motivarli evocando spesso l’amore per la loro maestra, ma anche l’amor proprio e il piacere di apprendere, educandoli alla collaborazione e al sostegno reciproco. Nel diario di Albertina la contrapposizione tra scolari più e meno diligenti è meno marcata che nel libro “Cuore”. A proposito delle mancanze dei suoi allievi, la maestra Prato non è mai tranchant. Difatti, tenta in tutti i modi di redimere “il suo Franti” (Colla Enrico) perché crede fortemente nella “mission” di insegnante. Albertina è sensibile ai problemi femminili e alla carenza di opportunità educative per le donne della generazione precedente. Le bambine sono anche le sue migliori allieve, ed è proprio alle sorelline e alle madri che chiede collaborazione per risolvere i problemi pratici e soprattutto ricondurre i bambini maschi a scuola.

In conclusione, può essere utile rievocare il contesto storico in cui si colloca questo diario scolastico, vale a dire le contraddizioni ideologiche della c.d “età umbertina”. La maestra Prato partecipa alla delusione dell’Italia per il crollo delle aspettative che gli ideali eroici del Risorgimento e gli obiettivi postunitari di promozione culturale su scala nazionale avevano alimentato in molti educatori. Malgrado ciò, Albertina non si deprime e dimostra concretamente come la passione per il proprio lavoro, unita a una profonda umanità, possano costituire le fondamenta di una buona scuola, allora come oggi.
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[1] Albertina Prato nasce a San Giuliano Vecchio, nel 1870, in una famiglia benestante. La madre è maestra, così come lo diventeranno anche le sue sorelle. Il padre, medico chirurgo, fonda la Società di Mutuo Soccorso e la Cassa Rurale di Previdenza. La Prato inizia ad insegnare nel 1888. Dal 1890 al 1895 viene destinata alla scuola mista di San Giuliano Nuovo, per poi essere trasferita in quella di San Giuliano Vecchio. Successivamente, si sposa con un geometra del Comune di Tortona, dove va a vivere nel 1907. All’insegnamento affianca una intensa attività di solidarietà e impegno sociale nei confronti di poveri e bisognosi. Nel 1922, a soli vent’anni, muore l’unica e amatissima figlia Giacomina. Il dolore è talmente forte che Albertina finirà per spegnersi, due anni dopo, all’età di 54 anni.

[2] L’avvocato Enrico Fortunato è stato sindaco di Alessandria dal giugno del 1895 al 1899.

[3] Un regio decreto stabiliva che il docente dovesse trasmettere il programma didattico, i registri e una relazione particolareggiata circa l’insegnamento svolto, nonché sulla frequenza, diligenza e profitto degli alunni. Due decreti successivi, rispettivamente del 1908 e del 1923, resero obbligatoria la compilazione del diario scolastico per i maestri e i direttori didattici.

[4] Al diario di Albertina Prato ha dedicato un interessante saggio Rita Cavigioli (University of Missouri-Columbia) dal titolo: “Tutto sta che l’insegnante abbia cuore e intelligenza. Esercizio letterario, ricerca pedagogica e professionalità femminile in un diario scolastico dell’Italia postunitaria”.

[5] La Prato aderisce allo spirito dei programmi del 1888, secondo i quali la scuola: “deve avvezzar gli alunni a osservare appunto le cose in mezzo alle quali vivono, facendo loro comprendere quanto frutto di ammaestramento possano trarre colla loro testa da tutto quello che li circonda”. I programmi furono redatti da una commissione di studiosi di matrice positivista (tra cui Aristide Gabelli) per i quali: “la scuola ha da servire a tre fini, a dar vigore al corpo, penetrazione all’intelligenza e rettitudine”.

[6] La gelsicoltura rappresentava una voce importante dell’economia agricola alessandrina a cui si dedicavano soprattutto singoli contadini e mezzadri che integravano in questo modo il magro bilancio familiare. La raccolta delle foglie veniva fatta per nutrire i bachi da seta, i quali erano allevati per la produzione dei preziosi bozzoli (cucalén). Agli inizi del 1900, si contavano nell’Alessandrino circa un milione di gelsi (moroni) che servivano anche a delimitare i confini dei terreni e la Città di Alessandria era ai primi posti in Italia per la produzione della seta. Negli anni Trenta si verificò purtroppo un crollo dei prezzi che decretò la fine della bachicoltura e quindi il conseguente atterramento di quasi tutti i gelsi. Qualche filare è sopravvissuto per testimoniare l’antico successo.

[7] La vita di Giuseppe Guazzone conte di Passalacqua merita senz’altro di essere conosciuta e approfondita. Così come ha fatto Debora Pessot che gli ha dedicato il suo ultimo libro intitolato: “El rey del trigo”. Giuseppe Guazzone nasce, figlio di contadini, nel 1854 a Lobbi, Regione Pagella. A causa della grave economica crisi dell’Italia post-unitaria, decide di emigrare in America, precisamente in Argentina, dove fa fortuna e diventa il re del grano. Non si dimentica però della terra natia e sovvenziona la costruzione di diverse opere a favore dei più bisognosi, quali l’Asilo Notturno (oggi sede dell’Hospice “il Gelso”) e lo Scaldatolo pubblico diurno in Alessandria, oltre alla Casa di Riposo di Lobbi. Per queste ragioni, il re Vittorio Emanuele III gli conferisce il titolo nobiliare di “Conte di Passalacqua”. Si spegne, nel 1935, a San Giuliano Nuovo nella cascina Ghilina dove trascorreva le sue estati. Ovviamente non potevano non fiorire leggende popolari intorno alla sua figura. Uno di questi racconti è stato riportato da Alberto Ballerino nell’articolo pubblicato sul Piccolo del 23/06/2015 intitolato: “Il Conte Guazzone, la Zecca e l’Argentina: storie della Fraschetta”. Secondo quanto sostenuto anche da Elio Pagella, il cui nonno era stato amico del conte, durante il trasferimento in treno della Zecca da Torino a Roma il convoglio si era fermato dalle parti di Asti. In quel frangente, Giuseppe Guazzone e altri riuscirono ad impossessarsi della Zecca e a trasportarla nella vecchia casa di Guazzone. All’arrivo dei carabinieri, però, la Zecca era stata già trasferita in un’altra cascina (la Maddalena) vicino al Po. E’ lì che Gipen Wason (nome dialettale del Guazzone) e i suoi complici stamparono i soldi per poi gettare la macchina nel fiume. Giuseppe Guazzone, con le valigie cariche si soldi, partì prima per il Brasile e poi si trasferì in Argentina dove, grazie a quel piccolo tesoro, diventò in breve tempo un importante e ricchissimo proprietario terriero.