Non sono fra coloro che si piazzano in una delle contrapposte trincee a favore o contro l’ebook. Tento di osservare il fenomeno – che in Italia non decolla affatto ed è complicato dalle troppe contraddizioni dell’autopubblicazione – con distaccata neutralità, volendo capire dove va a parare. Peraltro non mi sognerei di sparare aprioristicamente a zero sull’una o sull’altra posizione, anche se d’istinto non mi piace l’evidente sottotraccia di chi dichiara coram populo: «Io compro solo ebook». Sbaglierò, ci vedo una strana muraglia ideologica di ritorno. Ma vorrei scantonare, perché il problema è a mio parere più complesso. E anche complicato da circostanze “ambientali”.
Non entro neppure nella ridda delle cifre e/o delle previsioni che garantiscono che l’ebook entro il 2018 supererà per quantità le vendita del cartaceo. Annoto solo come molti grandi professionisti – l’ultimo, Stefano Massaron in un suo post intitolato significativamente La sconfitta dell’autore – segnali che con gli e-book (vado a memoria) al momento non ci compri neanche una pizza perché, per quanti pochi libri in Italia si vendano (tragicamente sempre di meno), il cartaceo la fa ancora da padrone, forse con uno “zero” di differenza, ma vado a naso e di sicuro mi sbaglio. Da qui me ne esco perché già vedo levate di scudi e trincee contrapposte e mi piacerebbe spostare il discorso ai piani più altri, anche un po’ filosofici per quanto materialmente pratici.
In fondo di che stiamo parlando? Alla fine, di un mondo che cambia con mostruosa rapidità, di nuove tecnologie e inaspettati orizzonti lavorativi. E dell’avanzata totale, su ogni fronte, del mondo immateriale che si fagocita la materia tattile. Il tutto è sicuramente di grande interesse antropologico e di grande interesse tout court, ma c’è un costo elevatissimo da mettere in conto. Internet e la Rete, che del mondo immateriale sono l’espressione più consumata e quotidiana, hanno distrutto nel corso degli anni milioni di posti di lavoro. Nei servizi, nel terziario, nell’arte. Non lo sostengo perché magari parte in causa. Come riportato da Francesco su “Il Fatto quotidiano” del 21 giugno 2013, Jeremy Rifkin lo aveva già profetizzato nel 1995 nel suo libro The End of the Work quando scriveva che “negli anni a venire software sempre più sofisticati porteranno la società più vicina a essere un mondo senza lavoro”, tesi ripresa nei primi mesi del ’13 da Erik Brynjolfsson, professore della MIT Sloan School of Management, che racconta, cifre alla mano, come gli indicatori della ricchezza e dell’occupazione abbiano preso nell’ultimo decennio una direzione divergente. Sale un certo tipo produttività, soprattutto tecnologica, ma diminuiscono i posti di lavoro e il saldo è negativo. Grafici e cifre riferiti va da sé agli Stati Uniti ma in Europa – e in Italia – la faccenda è analoga se non peggiore.
L’effetto mortale non si limita soltanto al lavoro operaio, in parte vittima dell’automazione industriale già dagli anni Ottanta. Piuttosto è il terziario a subire più gravemente quella che Brian Arthur del Palo Alto Research Center definisce “economia autonoma”, quella dei software che gestiscono attività complesse con grande facilità e costi bassi. A guadagnarci sono naturalmente le grandi corporation, che vedono i profitti al picco storico degli ultimi cinquant’anni. Peraltro basta guardarsi attorno: dopo la quasi scomparsa del piccolo commercio, da un po’ di tempo si stanno cannibalizzando a vicenda le catene della grande distribuzione. Perché, nel frattempo a complicare la vita della filiera (che ha ridotto a un lumicino la fetta di guadagno del produttore – vedi l’agricoltura), sono giunte le vendite on line che propongono spesso articoli a prezzi impossibili persino da capire perché spogli di ogni spesa di gestione del terziario tradizionale. E’ la democrazia, ragazzi, che avete da lamentarvi?
Restando nel campo tematico di partenza – il libro e di conseguenza le librerie -, mi piacciono sul serio poco i piagnistei collettivi che su Facebook o altrove accompagnano, che so, le chiusure di storici punti di vendita che non ce la fanno più a contrapporsi alla concorrenza sleale del mondo immateriale, leggi ebook o Amazon. Mi piacciono poco perché alla fine i piagnistei si concludono con peana contro la crisi, l’euro, la politica, la BCE, ma per una evidente forma di empatica ipocrisia, si accantonano nel buio del non detto le vere cause della morte del terziario. Cosa rispondere a un amico libraio di catena che si lamenta: «Mi impongono di vendere il Kobo che non mi reca alcun guadagno e dopo due giorni i clienti mi tornano indietro con il lettore che non sanno far funzionare, lo rimetto in sesto e chi li vede più? Sono intenti a scaricare libri dalle rete! Un download uguale una vendita in meno.» Già, sui librai che chiudono – come su chiunque che chiude – la retorica poi si spreca. Pacche sulle spalle, solidarietà, ma intanto mi scarico l’ebook o vado su Amazon.
Lo dicevo prima. Il mondo immateriale ha distrutto milioni di posti di lavoro e non ne ha creati altrettanti. Come riporta Brynjolfsson: “Questo è il vero scheletro nell’armadio dell’economia incorporea. Il progresso tecnologico espande certi settori e crea ricchezze alternative, ma nessuna legge economica garantisce che i benefici saranno di tutti”. Il grande dubbio è se l’essere umano sarà in grado di evolversi velocemente, o se invece sarà il software a imparare per primo quanto esso stesso richiede al lavoratore del futuro. Un esempio calzante è quello degli algoritmi per le transazioni finanziarie automatizzate, dette HFT (high frequency stock trading) che sono così sofisticati da non poter esser sviluppati se non con un altro software specializzato, riducendo al lumicino la domanda di lavoro per i programmatori. Il pericolo più immediato è la resistenza al cambiamento, l’ostilità alla tecnologia caratteristica dei cosiddetti “neo-luddisti”.
Brynjolfsson sostiene che l’uomo dovrà imparare a competere grazie alle macchine, e non contro le macchine. E se Marina Gorbis dello Institute for the Future di Palo Alto, con i toni classici del cyber utopismo, dice: “Le macchine ci permetteranno di fare cose che non avremmo mai sognato di poter fare”, qualcuno ricorda meno oniricamente che il digitale continua a distruggere ovunque milioni di posti di lavoro.
Secondo l’imprenditore della Silicon Valley Martin Ford, autore di Lights in The Tunnel, il 40% dei posti di lavoro americani (circa 50 milioni in valore assoluto) sono potenzialmente a rischio estinzione a causa delle tecnologie informatiche moderne. E proprio da un ex guru del progresso tecnologico, Jaron Lanier, arrivano le parole più disilluse. Nel suo libro Who Owns the Future?, Lanier attacca la cosiddetta sharing economy e spiega come ormai tutti noi contribuiamo gratis a creare contenuti e valore per le piattaforme globali dei social network.
I profitti però vengono distribuiti in forma di piramide rovesciata: pochi dipendenti in basso, e algoritmi che creano tanto valore a beneficio di pochi. Kodak: 140 mila impiegati, fallita nel 2012. Instagram: 13 impiegati, acquisita nello stesso anno da Facebook per un miliardo di dollari. Il nostro destino? Dice Lanier: “La democrazia non è stabile se la distribuzione della ricchezza è ristretta”.
E il destino di chi scrive, di chi produce arte in un panorama del genere? Lavoriamo anni, citando Massaron, per poche decine di lettori, se siamo destinati all’ebook, giusto per due terzi di pizza?
Il dibattito è aperto: ma il mondo immateriale gestito con queste modalità, devo averlo già scritto, è anche pericoloso. Perché è il prolungamento del “Delitto Perfetto” lucidamente profetizzato in tempi non sospetti da Jean Baudrillard. Se ne sono accorti parimenti – mentre generazioni di ragazzi non comunicano più verbalmente per immergersi nelle più recenti tecnologie – i guru della Nuova Economia, alcuni politici intenti a fare campagna neuronale, Amazon e persino quelli dell’Isis, chiunque siano.