Il grande Bernardo Beisso ci onora di una nuova comparsata, meraviglioso tuffo in in un passato mai troppo rimpianto. Gli cedo con piacere la parola, ricordandovi che il nostro mitico amico sta raccontando imprese inedite del suo gruppo Gli Squali. Anni Sessanta, non dopo (e citando King, ridateci gli anni Sessanta e i decenni successivi ficcateveli dove sapete voi…).
Facile immaginare di quanti episodi siano costellati i quattro anni che ci hanno visti girare in lungo e in largo la provincia e in quali e quante situazioni strane o quantomeno originali ci siamo imbattuti. Pensate solo cosa poteva significare essere il complesso ufficiale delle manifestazioni che sancivano attraverso selezioni, più o meno serie, miss “profumi Paglieri”, o essere il complesso base per un piccolo “Festival di Sanremo“ in quel di Carezzano.
Succedeva anche che qualche mamma, considerandoci membri a tutto titolo dell’organizzazione, cercasse di comperarci, affinché agevolassimo la carriera della figlia. Non sapevano le sognanti genitrici che l’unico, inamovibile, inossidabile, sempiterno organizzatore, che tutto poteva sul destino delle poverette, era lui, “il bravo presentatore”, ovvero Paolo Paoli.
Qui mi sento di spendere alcune righe proprio per Paolo che, dal 1964, ho incrociato molte volte, nelle situazioni più disparate sulle scene. Una carriera la sua da professionista del microfono, con tanto di giacche e farfallini di ricambio per ogni occasione, pronto a subire gli improperi dei molti che vedevano magari sfumare un’ora di balli e di conquiste per quel perditempo. Lagnanze e querele a colpi di fischio e quante deve averne subite nella sua lunga e decorosa vita da presentatore, numeri che avrebbero cassato le carriere di Pippo Baudo e Raffaella Carrà in men che non si dica, ma non la sua, imperterrito col sorriso, pure da incazzato, continuava magari con un: «Ragazzi potete alzarmi un po’ il microfono ?»
Paolo di solito formava prima la giuria tra le persone importanti presenti alla serata, che so, il farmacista del paese, la parrucchiera, magari il sindaco o il maresciallo dei carabinieri. Quando non ci riusciva per inaspettate motivazioni, Paolo inseriva qualcuno di noi che rappresentava, naturalmente, il responso di tutto il complesso. Di certo erano i sorrisi più convincenti delle concorrenti che facevano lievitare il nostro punteggio.
Vi posso assicurare che si riscontrava una partecipazione numerosa a queste singolari manifestazioni: più volte ho visto piangere ragazzine che non erano riuscite a imporre la loro avvenenza, lacrime a cascate e stizzite ire di mamme. Alcune ci seguivano di paese in paese al punto da entrare in confidenza con l’organizzazione e allora un premio, anche solo di consolazione, con foto sul “Piccolo” tra la miss e damigelle, ci scappava sempre.
A proposito di aneddoti con Paolo ci sarebbe da scrivere un libro, ma quello era un mondo così, da paese; l’aria stava cambiando, la televisione cominciava a dettar legge, l’emancipazione passava anche attraverso la partecipazione a un insulso concorso per miss Fiondi o Reginetta del salame cotto.
Mi tornano alla mente due perle che affiorano più di altre dai ricordi.
Estate del 1966: sono aumentate in maniera considerevole le apparecchiature che usiamo per suonare. Intanto non siamo più quattro ma cinque, ognuno di noi si è meglio attrezzato con amplificatori più grandi e potenti e la tastiera è uno strumento alquanto ingombrante.
Nella pur capiente 1500 Fiat tutta quella ferraglia, più noi cinque non ci sta. Qualche amico motorizzato ci aiuta nel trasporto ed è la Spider del “Mela” che ci offre, il più delle volte, l’opportunità di smaltire un po’ di attrezzatura sul sedile posteriore.
Un aiuto consistente arriva nel momento che i miei genitori decidono di acquistare, per il trasporto del pane, un motocarro “Lambro 500” che mio zio Ottavio dovrebbe guidare dopo aver preso la patente, cosa che non gli riuscirà neppure dopo essersi presentato all’esame per cinque volte.
Così il potente triruote rimane inattivo nei giorni lavorativi ma si mette in movimento il sabato e la domenica per trasporto strumenti. Io so guidarlo e Lele mi sta al fianco per esibire, in caso di controllo, la patente. Con un mezzo del genere si coprono i chilometri che ci portano sul luogo dove suoneremo a una velocità che non supera mai i cinquanta allora. Per questo si anticipano di molto le partenze.
Ed è proprio verso le cinque del pomeriggio di un sabato estivo che, dopo aver stipato il carico sul motocarro, partiamo seguiti dalla Fiat con il resto della banda, in direzione di Canelli.
Roberto aveva ricevuto una telefonata pochi giorni prima dal mitico Santino Rocchetti, che allora col suo complesso lavorava soprattutto nell’alto Monferrato. La telefonata si svolge in questi termini: Rocchetti chiede a Roberto se “Gli Squali” possono sostituire il suo gruppo che opterebbe per un contratto più importante. Santino sta telefonando da Canelli e il locale dove noi dovremmo esibirci è il “Gianduia”. L’affare è fatto, ci si mette d’accordo sui soldi e non ci si sta tanto a pensare, soprattutto se si può aiutare un collega.
Siamo per strada alle 18. Ogni qualvolta becchiamo una buca ci si ferma a controllare il carico. Quindi un caffè a Nizza Monferrato e poi via per l’ultimo tratto tra belle verdeggianti colline mentre la strada incrocia spesso la linea ferroviaria e i binari ci obbligano ad abbassare la velocità a passo d’uomo.
Il viaggio pur lungo, ci vede alla porte di Canelli non più tardi delle 19, orario più che decoroso. C’è tutto il tempo per montare l’impianto di amplificazione, fare i suoni e andare a mettere sotto i denti qualcosa.
Santino ci ha detto che il locale è famoso e si trova nei pressi della piscina. Chiediamo informazioni al primo umano che incontriamo e questi sostiene che a Canelli, secondo lui, non esiste un locale con quel nome. Il solito che non va mai a ballare, pensiamo.
Sollecitiamo il secondo passante in modo più specifico a indicarci l’ubicazione della piscina. Dal suo sguardo sbigottito, capiamo che siamo proprio sfortunati a incontrare le persone cui chiedere informazioni.
Il terzo lo scegliamo con più accuratezza: un giovane aitante che, pur non conoscendo il locale, ci svela che la piscina non esiste ancora, ma che il progetto è già avanti la progettazione e l’area dove sorgerà la struttura è poco fuori Canelli, praticamente dalla parte opposta da dove siamo arrivati.
Nel frattempo ci siamo giocati il tempo per mangiare, ma non importa: l’importante è suonare. Il centro cittadino non ci aiuta con i suoi ponti i sensi vietati e un vigile ci ferma solo per avvertirci che stiamo perdendo qualcosa.
Decidiamo che la vettura ci preceda sul luogo per tranquillizzare chi ci aspetta, ma quando, in mezzo alla campagna, la raggiungiamo, lo sguardo degli altri ci comunica che anche quella è stata un’indicazione infausta.
Incomincia a serpeggiare lo smarrimento mentre torniamo verso Canelli. Sulla piazza principale, sorpresa, troviamo mio fratello che, avendo saputo dalla nostra mamma il nome del locale e quello paese che dovrebbe ospitarlo, si rende conto che le due cose non collimano.
Al “Gianduia“ Jose ha già suonato e sa che quel posto si trova ad Acqui Terme, proprio nei pressi della piscina. Capito il qui pro quo: Roberto ha ricevuto la telefonata da Canelli e, non conoscendo la balera, ha pensato si fosse ubicata in quel paese, mentre Rocchetti, dicendo il nome del locale, ha considerato superfluo indicarne la località.
Sono nel frattempo scoccate le 21. Imbocchiamo la strada che, riattraversando Nizza per buie colline, ci porterà ad Acqui.
Chiedo all’umile “Lambro” tutto quello che meccanicamente può dare. A ogni curva rischiamo di perdere il carico, le tre ruote sono incandescenti per le continue frenate e Lele al mio fianco e come se perdesse i sensi a ogni chilometro.
Sono circa le 22 quando giungiamo davanti al “Gianduia”. Dalla sala agghindata con lampadine multicolore, ci arriva la musica di un giradischi e la balera è stracolma. Dentro vediamo avventori di una certa età, probabilmente frequentatori delle Terme che, dopo una giornata di inalazioni, suffumigi e fanghi, approfondiscono la conoscenza ballando un tango o un intrigante fox-trot alla faccia di artriti e faringiti croniche, finalmente liberi da accappatoi e asciugamani fiorati a mo’ di turbante: l’esercito in ciabatte alla sera indossa scarpe di vernice nera.
La serata per loro è ormai lanciata e per noi è perduta. Ci guardiamo in faccia e nessuno ha il coraggio di entrare. Stanchi e demoralizzati, risaliamo sui nostri potenti mezzi e puntiamo il muso verso casa.
Ovvio, da quella sera cessano i rapporti con Santino Rocchetti.
La seconda perla di quegli eccitanti anni mi riguarda più da vicino. L’agosto è quello del 1968: ci troviamo a Casalcermelli, al rinomato Pagliarella, il sabato della festa del paese e la domenica sera. Sabato abbiamo Paolo Paoli che sovrintende l’elezione di miss Paglieri.
Il dancing per entrambe le serate è stipato in ogni ordine di posti. All’esterno le famiglie tengono a bada i figli che piangono e strepitano tra le bancarelle dei giocattoli e quelle del torrone. Insomma, una bella festa di paese.
Ma la domenica sera per me è ancora più bella. Tra le tante persone che gente che entrano nel locale scorgo, sorpresa, Graziella che ha convinto la sorella, con fidanzato incorporato, ad accompagnarla a ballare proprio lì. Sto cantando e mi impappino per l’emozione, mille pensieri mi confondono: mamma mia, che bella serata! Mentre la festa impazza tra quattro lenti e quattro veloci, cerco di organizzarmi per avere almeno un piccolo rendez-vous con Graziella, ma nonostante mi ingegni, la vigilanza della sorella Silvana è serrata. Alcuni amici di Valle San Bartolomeo la fanno ballare a turno, recandole miei messaggi e da Gigi Poggio apprendo che lei uscirà al prossimo riposino per comperare un croccante sulle bancarelle. E’ fatta: il riposino è anche quello di mezza serata. il più lungo. Certo non posso passare in mezzo alla pista senza essere notato, allora opto di scavalcare la rete di recinzione che si trova dietro il palco dell’orchestra. Si entra in un cortile in fondo al quale si apre un cancello sulla strada per Frugarolo, lì, dietro l’angolo, le bancarelle.
Ho 18 anni sono agile e deciso, spinto dall’amore: chi può fermarmi?
Subito al di là della rete, in contrasto alle sfavillanti luci della balera, governa il buio più assoluto, brancolo e inciampo, ma guadagno il portone, la strada, i giardini.
Cerco tra la gente che fa acquisti ed eccola con il cartoccio in mano che si aggira come se fosse interessata alla mercanzia esposta, ma in verità aspetta il mio arrivo. Mi avvicino circospetto indugio un attimo, lei mi scorge, sorride e mi viene incontro. Sono a pochi passi da lei, assaporo il momento magico di un tale innocente incontro, ancora dieci, forse nove passi ed ecco all’improvviso sbucare tra la folla il viso di Pino (fidanzato della sorella), mandato in ispezione dopo che si è notata la mia mancanza nei pressi dell’orchestra. É un attimo: prima che lui mi veda scarto a destra velocemente dietro un banchetto di liquirizie. Graziella è interdetta ma capisce, si volta e chiama il futuro cognato con un atto di recitazione alla Eleonora Duse.
Fiasco completo, porca paletta! Riguadagno il portone, entro furtivo nel buio del cortile puntando il retropalco che ora vedo benissimo, non come la buca del letame che mi si para dinanzi come un medioevale tranello. Così mi manca la terra sotto i piedi e nell’attimo di terrore mi ritrovo sprofondato fino alle cosce nella cloaca.
Non so se piangere o ridere. Intanto Piero prega per microfono che il bassista Bernardo si presenti al più presto al palco dell’orchestra, perché il riposino è finito da quel bel dì.
Con la forza della disperazione, mentre un cane fa capolino tra le piante e incomincia ad abbaiare e a ringhiarmi contro, aggrappandomi all’erba mi isso da quelle fetide sabbie mobili, ricordandomi che sull’angolo dei giardini, a sollievo dei viandanti, si trova una fontanella.
La raggiungo maledicendo il cane che mi insegue correndo nella scia del liquame che rilascio. Lì con il coraggio del disperato, mentre dal palco si richiede perentoriamente la mia presenza – butto le gambe sotto l’esile getto d’acqua, mi tolgo le scarpe e cerco di levarmi la più grossa, tra la gente incuriosita e sbigottita dalla performance. Poi lavo le scarpe, le calzo belle inzuppate e, perché non sia detta, rifaccio il temibile percorso conoscendo ormai i pericoli da evitare.
Quando giungo alla rete, i miei compagni, fatta di necessità virtù, cominciano a suonare in tre maledicendomi. Salto dunque la rete, salgo sul palco, imbraccio il basso e mi accodo alla musica.
Alla luce esamino i danni: sono completamente inzuppato ma decentemente pulito. Guardando Roberto alle mie spalle, la sua faccia disgustata mentre suona la batteria, capisco in un secondo che una terrificante puzza gli sta invadendo le narici. E da lì a poco una nuvola di invisibile merda prende possesso del palco della Pagliarella con gli Squali che abbandonano gli strumenti per turarsi il naso!