Potrebbe essere una classica distorsione da sopravvivenza al passato quella che mi fa sembrare tutto quello che ha caratterizzato i primi anni novanta come favoloso: includo nella lista la musica degli Oasis, il film «Il Corvo» – del quale ebbi una prima visione con trentanove di febbre ma un unico raro invito da una ragazza -, i primi giochi per PC e le camicie di flanella grezza a quadretti che farebbero vergognare persino i montanari più sperduti nelle valli locali. Nell’elenco di queste cose – che ovviamente ad una seconda valutazione da trentasettenne non sopravvivono ad una prima scrematura tra le cose che porterei con me su di un’isola deserta – ho volutamente escluso la passione calcistica dell’epoca, ovvero le rivoluzionarie idee di Arrigo Sacchi.
L’omino di Fusignano – sulla cui carriera da allenatore credo pochi possano permettersi di esprimere critiche – ottenne una serie di risultati impressionanti soprattutto in campo internazionale con il Milan e un mondiale splendido con la Nazionale Italiana, del quale prima o poi mi riprometto di raccontare ogni singola partita come l’ho vissuta in diretta, prima di un Europeo che avrebbe potuto essere splendido ma che venne sacrificato sull’altare della coerenza al modulo piuttosto che agli interpreti. Io lo ricordo soprattutto per una frase: «A noi italiani manca la cultura della sconfitta.»
Aveva, ed ha, drammaticamente ragione: negli Stati Uniti quando finiscono le elezioni – anno 2000 a parte, ma lì bisogna ammettere che fu il digital divide di un continente più che la cultura del sospetto a fare danni – lo sconfitto rilascia dicharazioni tipo «Faccio i miei complimenti ad Obama, e mi metto a sua disposizione insieme a lui a lavorare per il bene dell’America.», e lo fa. Qui, è già un buon risultato se non ci si insulta selvaggiamente accusandosi a vicenda delle medesime nefandezze, e come abbiamo visto nel recente passato non ci si può più fidare nemmeno delle persone del TUO partito. Siamo il paese che demonizza le medaglie d’argento più dei terzi posti – anche se esistono studi psicologici che dimostrano come concludere un torneo con una vittoria dia un senso di appagamento superiore a quello di concluderlo con una sconfitta – e financo delle eliminazioni al primo turno, se ci si può appellare ad una congiura dei poteri forti o ad un errore arbitrale, e poi prendiamo in giro gli africani che fecero arrestare lo stregone avversario prima delle semifinali di Coppa D’Africa 2004.
Tutto questo pastrocchio serve per introdurre uno dei rari casi in cui alla glorificazione del vincitore – domenica ero al «Garrone» a vedere l’Arquatese rifilare un 4-0 secco al malcapitato Savoia in uno scontro al vertice fra due squadre che insieme hanno collezionato 29 vittorie, tre pareggi e quattro sconfitte due delle quali sono gli scontri diretti – merita una menzione speciale anche l’allenatore degli sconfitti.
Roberto Adamo si è presentato ai miei microfoni virtuali con una tranquillità ed una signorilità che raramente ho incontrato nei campi dilettantistici: non ha cercato scuse facili, ha ricordato che mancano ancora dodici giornate alla fine del campionato e che il Savoia combatterà fino all’ultimo, mi ha augurato buon lavoro. Tutto questo nonostante lo 0-4 ed il suo attaccante più forte in infermeria per una probabile distorsione alla caviglia: chapeau; non so come finirà il campionato, ma una vittoria enorme l’ha già ottenuta.