I collettivi, le gang, le tribù, amano adottare comportamenti distintivi, dalla stretta di mano che per differenziarsi può arrivare fino al complicatissimo rituale in uso presso i neri americani che vediamo nei telefilm made in Usa, fino agli stemmi da ostentare sulla giacca come quello del Rotary. Altri segnali di appartenenza sono affidati al vestiario o al taglio dei capelli, ai tatuaggi, al piercing. Servono a significare un modo di essere, la propria diversità iniziatica rispetto al resto della società conformista, e naturalmente presuppongono meccanismi di autostima collettiva che si alimenta nel sentirsi portatori di un ‘nuovo’ nei costumi, nella politica, nella morale, che vuole farsi strada spazzando via le resistenze conservatrici.
Orbene – precisando che la società, come ogni organismo, tende (deve tendere per sua stessa natura) all’autoconservazione ma contiene in sè pulsioni innovative determinate dal caso e dalla necessità che lottano per affermarsi riuscendoci quando la mutazione si rivelerà effettivamente funzionale a una maggiore efficienza dell’organismo stesso – vediamo di esaminare un tipo di comportamento che non saprei definire se non come quello dell’irrisione a prescindere e che a proposito dell’assunto sulla gente che sorride fa sorgere la domanda: sorridono, ma a chi?
Se accendi la tv e capiti nel bel mezzo di uno dei tanti salotti politici, col conduttore che smaramaldeggia interrompendo con un’altra domanda quando il discorso prende una piega che non gli piace, ti accorgerai che i partecipanti si dividono in due schieramenti: chi sorride e chi non sorride. E chi sorride lo fa, con un’aria dal saputo, all’arrogante, al sarcastico, appena l’interlocutore pronuncia le sue prime parole. E’ un riflesso condizionato che scatta in modo del tutto indipendente dall’argomento di cui chi ha la parola sta trattando, della sua qualificazione culturale e professionale, del suo sesso (in presenza di donne, con inconscio maschilismo, il sorriso può diventare anche malizioso e ammiccante; viceversa quando è la donna a sorridere ci si trova di fronte a una declinazione al femminile del riflesso succitato, che tradotta in volgare, ci dà il sorrisetto da impunita: ‘parla, parla, che poi ti metto a posto io’, tipico nelle giornaliste).
Negli interpreti più scafati il sorriso si completa con un alzare degli occhi al cielo, con scuotimenti della testa, con un ruotare del collo in favor di telecamera e platea, da un desolato spalancare di braccia. C’è poi chi invece di gigioneggiare si affida al sorriso derisoriamente tagliente, stile sogghigno giacobinoide, di fronte allo spettacolo desolante della sterminata ignoranza altrui.
L’abitudine è così diffusa da non poter essere passata sotto silenzio pur nella sua apparente marginalità. Manifesta un sentimento di superiorità antropologica il cui palesamento non risulta però funzionale all’obiettivo che dovrebbe porsi chi partecipa a un dibattito: convincere il maggior numero di elettori della superiorità, della maggiore funzionalità, della propria proposta. Il sorrisetto saputo, al contrario è un segnale di complicità rivolto a coloro che già sono d’accordo con chi lo inalbera, mentre irrita irrimediabilmente chi non lo è ma potrebbe anche cambiare idea e che invece da quel sorriso si sente confinato nella massa dei minus habens.
E’ di Totò la leggendaria battuta “Lei è un cretino, si convinca!”. Ma Totò era un grande comico, non l’esponente di un partito politico che dovrebbe cercare di ampliare la platea dei suoi elettori.