Iniziamo un viaggio in un universo un po’ dimenticato ma con cui, prima o poi, dovremo ancora fare i conti. Questo prima analisi prende in considerazione una vicenda complessa e controversa – quella della storia dell’ambientalismo in Italia –, ed è dedicata alla grande figura di un ambientalista “doc”: Alexander Langer.
Volevo iniziare queste poche riflessioni con un più roboante “Che fine hanno fatto le Associazioni Ambientaliste?” ma la sola falsità della formulazione mi ha portato a più miti consigli. “Fare una fine” presuppone un inizio, uno svolgimento, una articolazione di attività e di interessi, una rete di interventi e collaborazioni, tutte belle cose rimaste in punta di penna e mai, veramente, poste in essere. Non è che le associazioni ambientaliste abbiano fatto il loro tempo, è solo che le stesse tre o quattro cose sono svolte egregiamente da esperti di settore che preparano e portano avanti ottimi ricorsi al Tar o alle varie Corti, che organizzano corretti percorsi di Educazione Ambientale secondo le migliori teorie pedagogiche, che sanno gestire un parco o un’area protetta con professionalità e con responsabilità precise, molto meglio di un ambientalista qualunque che ha tempo per le problematiche di tutela solo alla domenica o durante le feste. Certo è servito un (lungo) periodo di avvicinamento ai problemi, fatto di segnalazioni, muri di gomma, denunce e, talvolta, vittorie, ma è sempre mancato – almeno in Italia – qualcosa che permettesse un vero saltodi qualità.
Di lì la crisi – evidentissima – delle associazioni ambientaliste di oggi in difficoltà sia per lo scarso numero di iscritti, sia per la mancanza di organicità negli interventi. Tutto, pero’, puo’ avere una spiegazione, tutto sommato semplice, per cui permettetemi un piccolo excursus nel defunto mondo dei Verdi italiani …
Tutto ha inizio con personalità come Alexander Langer, Marco Boato, Ermete Realacci, Edo Ronchi, Gianni Mattioli, Massimo Scalia, Fulco Pratesi e tanti altri. Chi erano? Beh, incredibile, ma durante questa prima tornata di interviste finalizzata a capire che fine stanno facendo gli “ambientalisti” ho avuto la non gradita sorpresa di ricevere molti “non so”, “non ricordo”. Come? Fulco Pratesi è la storia del Parco Nazionale d’Abruzzo, prima che attivista del WWF, Ermete Realacci prima di essere risucchiato nei gorghi renziani del PD è stato un valente dirigente di Legambiente nazionale, Massimo Scalia e Gianni Mattioli sono stati l’anima del Movimento Antinucleare italiano che ha fatto dei problemi energetici un momento di contraddizione del nascente CAF. Di Alexander Langer, suicida a soli quarantanove anni nel 1995, avete la trascrizione completa in italiano di un suo famoso intervento fatto a braccio all’Università di Trento nel 1985, definito – di lì a poco – “Profezia”. Ma poviamo a scavare ancora un po’ e, forse, riusciremo a trovare maggiori risposte.
Per esempio … potremmo incrociare personalità come Igor Staglianò, passato da un ruolo dirigenziale nel partitino dell’estrema sinistra Democrazia Proletaria, alla rappresentanza dei Verdi in più consessi amministrativi, fino ad un più mite incarico di responsabilità presso RaiTre Torino (tutto questo el periodo 1974 – 1993). Oppure persone vere come Pasquale Cavaliere, finito suicida in Argentina dopo aver ottimamente interpretato per circa un decennio ciò che era francamente indecifrabile, cioè conciliare gli appelli alla trasparenza, alla sincerità, all’autonomia rispetto alle lusinghe di cariche e denaro con la pochezza dei rappresentanti di allora. Ma, ormai, con Pasquale siamo agli esiti finali di questa storia, soprattutto politico amministrativa, che non è mai riuscita a decollare e che, soprattutto, non ha mai superato un’ambiguità di fondo, che ben colse Alexander Langer nel testo del 1985 .
Quest’ambiguità stava, sostanzialmente, nell’essere percepiti come una articolazione della sinistra più estrema e radicale, una variante di comunismo che, al momento opportuno, si adatterà alle linee indicate dai teorici (tardo) leninisti, o qualcosa del genere. E questo ha dato fastidio, ha annacquato le possibili dirompenti energie mai completamente sviluppate ed ha condannato il movimento, nella sua pars politica ad una marginalità continua.
I Verdi, in quanto partito, nascono nei primissimi anni Ottanta dello scorso secolo, dopo una gestazione di almeno un quinquennio che, sostanzialmente, partiva dalla constatazione che le attività di informazione (allora definita “controinformazione”), di organizzazione e di denuncia, fino ad allora discretamente interpretate da associazione quali Italia Nostra, le varie sezioni nazionali del WWF, quel che rimaneva di Pro Natura e poche altre, dovessero trovare una autonoma espressione in tutti i consessi politici, consiliari e parlamentari tramite uno strumento adeguato. E questo strumento era (o, meglio, sarebbe dovuto essere) la federazione nazionale dei Verdi. A Bologna, a Firenze, Milano e Roma si susseguirono per anni incontri e confronti, fino a che ci si ritenne pronti per il grande salto. Ma quando venne il momento di “saltare” i risultati furono minimi, assolutamente al di sotto delle attese. Si andava da un fondo piatto tra l’uno e il due per cento spalmato nelle diverse regioni nazionali a qualche “punta” anche dell’otto, nove per cento, ma niente che potesse far gridare al “cambiamento”.
Ci si interrogò a lungo sulle cause delle ripetute sconfitte, in anni di “solidarietà nazionale” imperante, con tre numi tutelari (Craxi, Andreotti, Forlani) che con i contatti giusti e con le reti (le loro) appropriate, riuscirono a tenere per le p…e per un lunghissimo periodo questa nostra Italia. Lo stesso periodo, guarda caso, dell’aumento esponenziale del debito pubblico, del “rimandare a domani i problemi”, quello a cui si dovrebbe guardare con più attenzione quando si riflette su “chi ci ha messo nelle condizioni di oggi”.
Comunque, allora, la macchina non decollò, provò a correggersi sbuffando (famosa la “mozione” della “rotazione a metà mandato” del convegno nazionale di Chianciano del 1990), tentò più volte di cambiare leader, annusando nell’aria un ritorno di protagonismo in politica che andava a chiudere definitivamente decenni di “ideologie”, ma tutto fu inutile. Alla fine, come dice Renzi “se non viene rottamato prima, si rottama da solo”. E così è stato.
Qualcuno si sarà chiesto il perché di questa lunga digressione sui Verdi, ormai oggetti di antiquariato, quando l’argomento erano le associazioni ambientaliste, i loro problemi, le tensioni interne, la diminuzione di tesserati e la chiara percezione di un superamento di fatto anche di questi – preziosi – strumenti di aggregazione e di intervento. Molto semplice. Se le stesse organizzazioni ambientaliste non marcheranno a brevissimo una forte e decisa autonomia da qualsiasi sponsor politico-partitico non saranno mai null’altro se non utili appendici in vista di qualche candidatura di appoggio (ma raramente vincente) o di qualche strumentale raccolta firme. Se solo si proveranno a mettere in discussione il “manovratore” del momento saranno immediatamente private di quei pochi strumenti di sopravvivenza che sono rimasti: la possibilità di accedere alle informazioni che contano, la facilità nel farle conoscere commentandone i contenuti, l’opportunità di riunirsi e organizzare riunioni in luoghi non troppo cari e non precari. Insomma “sopravvivere”. O, meglio, “galleggiare”.
Quindi non lamentiamoci quando si vedono altre realtà molo più vive e fiorenti, da Emergency a Greenpeace fino alle realtà più “promozionali” e “lavorative” come “Venti-ventI-venti” o Lab 121. Almeno, penseranno coloro i quali si avvicinano ad associazioni di questo tipo, mi diverto, mi do una scarica di adrenalina o, semplicemente, mi qualifico meglio per un futuro lavoro.
Enzio Notti (nella foto), intervistato proprio in questi giorni sulla crisi dei movimenti ambientalisti è, sotto questo punto di vista, sferzante: “Si è persa – almeno per quanto riguarda la città di Alessandria – un’occasione storica nel momento in cui ci si è cocciutamente legati a nomi (si direbbe oggi) “divisivi” come i candidati sindaci del 1993 e del 1997 avvocato Ferrari e dottor Ivaldi; due nomi che hanno spianato la vittoria alla lega Nord e che hanno permesso l’inizio di una lunga fase di “reazione” “. Forse quando Notti pensa a “reazione”, senza volerlo, va a citare quel passo sotto riportato di Alexander Langer che ci spiega che quel tipo di “reazione” è stata (ed è) piuttosto una spoliazione in piena regola, un “succhiare finche’ si può”, tutt’altro di una salvaguardia o qualcosa di simile. Apprendiamo, dalla veloce chiacchierata che la locale sezione ha iniziato i suoi passi in loco nel lontano 1981 su tematiche di salvaguardia dall’inquinamento, specie da aziende di pochi scrupoli che scaricavano nei fiumi del sud della provincia. Una condivisione di temi che ha visto per molti anni in stretto collegamento Legambiente (nata nel 1983 ma diventata un vero faro nella panoramica delle associazioni italiane), Pro Natura e WWF unite su un fronte comune. Un fronte che, però, come i giapponesi nelle foreste filippine più nessuno prende in considerazione e di cui, ancor meno, qualcuno ha timore. A meno che vengano messi in mezzo avvocati e carta bollata ma, credetemi, non è per questo che le persone che amano l’ambiente, la salute propria e degli altri, il proprio territorio e tante altre cose belle, impegnano ore, denaro e trascurano affetti e tante altre belle cose. Per questo la lettura di Alexander Langer diventa ancor più rilevante.
Quanto sono verdi i conservatori, quanto sono conservatori i verdi
di Alexander Langer
I “verdi”, per quanto ancora in statu nascenti e quindi poco definiti e caratterizzati, nei vari paesi hanno assunto sinora il volto di un movimento essenzialmente utopistico. Intendo dire: un movimento (di pensiero, culturale, politico ecc.) che aspira a qualcosa che non si ha o non si è, ma si vorrebbe avere o diventare, immaginando un possibile mondo migliore da realizzare nel futuro.
Un mondo pacificato, liberato dall’aggressività delle armi e dello sfruttamento distruttivo dell’ambiente, il regno della cooperazione al posto della concorrenza, della solidarietà al posto della competizione, l’equilibrio (tendenzialmente stabile) economico e ecologico al posto dell’espansione e della crescita, la salvaguardia e la valorizzazione delle diversità invece che l’omologazione e la standardizzazione di tutto e di tutti. Dimensioni conviviali e non industriali – anche nello sviluppo tecnologico, nella produzione e nei consumi, nella stessa democrazia e convivenza organizzata della società. Realizzazione di un nuovo rapporto con la natura e con l’ambiente che – se già non è possibile ripristinare alcuna integrità violata e distrutta – almeno aiuti l’umanità a non procedere a ulteriori e del tutto irreparabili mutilazioni.
Sotto questo profilo di progettualità utopistica, i verdi sembrano parenti abbastanza stretti di altri movimenti o di altre correnti utopistiche: dagli scenari socio-religiosi che immaginano un nuovo mondo sino alle utopie di matrice socialista e comunista. In tutti questi movimenti domina una volontà di cambiamento e trasformazione profonda, spesso con un richiamo alle origini (al cristianesimo primitivo anteriore all’istituzionalizzazione contantiniana, al comunismo e collettivismo primitivo anteriore all’accumulazione originaria, all’equilibrio ecologico anteriore ai grandi interventi umani su scala industriale) e con l’indicazione di un orizzonte di speranza e di obiettivi da raggiungere.
Questi movimenti, dunque, esprimono una critica – in genere assai radicale – allo stato presente delle cose, talvolta con tinte anche apocalittiche (l’immiserimento progressivo del proletariato, l’inesorabile autodistruzione del genere umano ecc.), e tendono a individuare un possibile futuro più o meno “paradisiaco” nel tempo a venire, purchè si segua la strada della progettualità utopistica e i programmi concreti che ne sostanziano l’avvento graduale o repentino.
Una riprova meno ideologica e più materiale del carattere fortemente ideale e utopistico del movimento verde lo offre la geografia sociale e territoriale dei suoi insediamenti e dei suoi consensi elettorali. Aderiscono a idee verdi e praticano magari anche qualche impegno concreto in tal senso soprattutto persone che vivono nelle città, che hanno un livello abbastanza elevato di istruzione e cultura, che spesso appartengono a ceti sociali del settore terziario e che comunque vivono prevalentemente nel nord del mondo (industrializzato, “progredito”, con altri livelli di consumi), che soffrono delle numerose forme di amputazione del loro rapporto con la natura e che al di là dei loro interessi economici più immediati assumono un ethos e una coscienza che qualcuno chiama post-materiali (e post-industriali) e che comunque privilegiano le ragioni del lungo periodo rispetto a quelle – certamente più stringenti e rapaci, ma anche assai miopi – dell’immediato futuro.
In altre parole: si aderisce al movimento verde più facilmente abitando nelle metropoli e sentendo la mancanza di ogni diretto contatto con la natura (il latte arriva nel cartoccio e gli animali si vedono solo alla tv e allo zoo) che non lavorando la terra o vivendo nelle aree ancora meno industrializzate.
Questa situazione, di per sé non nuova (il movimento che si rifà al proletariato non è forse figlio di intellettuali, piccoli e grandi borghesi, artigiani e altri rinnegati delle proprie condizioni materiali?), contribuisce tuttavia a esporre il movimento verde a alcuni rischi.
Ne vorrei individuare soprattutto tre:
1. di rimanere una corrente minoritaria, tra l’illuminista e il predicatorio (come talvolta accade al Partito radicale), e di non riuscire quindi a coinvolgere strati più larghi della società, soprattutto tra i ceti popolari;
2. di esercitare oggettivamente una concorrenza soprattutto alla sinistra, di cui soggettivamente molti verdi non riescono a non sentirsi parte integrante, anche se magari sofferente (soprattutto in Italia e in Olanda, un po’meno in Germania federale), e di non superarne quindi il perimetro culturale, sociale e ideale, rimanendone un po’mosche cocchiere;
3. di perdersi nell’astrattezza di chi sogna o progetta il mondo migliore, finendo essenzialmente nell’”ideologia”.
Al contrario delle caratteristiche che finora assunte dal movimento verde in Europa e negli Stati Uniti, esistono invece paradossalmente ampie aree geografiche e sociali, nelle quali sono (ancora) diffuse pratiche, modi di vita e idee di valori che potremmo definire “verdi-ruspanti”, o, forse meglio, naturaliter (che poi vuol dire sempre “culturalmente” !) verdi.
Mi riferisco per esempio a regioni quali quelle dell’arco alpino e del meridione, dove la diffusione dell’industria, dello sfruttamento turistico di massa e di altre forme di modernizzazione imposta non ha ancora interamente sfondato e non riuscirà ancora a cancellare e snaturare integralmente le civiltà preesistenti.
Basti pensare – seppure sommariamente e senza indulgere a romanticismi o nostalgie – quante manifestazioni di vita personale e comunitaria conservano vitali elementi di un rapporto con la natura e tra la gente che si potrebbe definire “spontaneamente ecologico”: dall’economia di sussistenza alla coltivazione diretta, dall’agricoltura differenziata (non monoculture) a tante forme ancora esistenti di artigianato, dalla sopravvivenza di forme comunitarie non-statuali e non-istituzionali alla solidarietà vicinale e al mutuo aiuto, dall’ospitalità alla festa, dalle dimensioni stesse della vita quotidiana (ridotta densità della popolazione, della velocità, dell’accumulazione, delle differenze sociali…) al modo di sentire e praticare tradizioni costumi, idiomi, modi di dire…
Insomma: senza assolutamente disconoscere i molti elementi di alterazione violenta espansionista che ormai anche nei tessuti sociali più riposti e meno intaccati della mercificazione si trovano in abbondanza, e senza nascondersi i molti limiti e le molte contraddizioni insite nelle forme sociali meno moderne, non si può non notare che parecchie di quelle cose che altrove i verdi (o anche altri) faticano a “riscoprire”, in certe aree geografiche o sociali non sono ancora del tutto estirpate e omologate. E una diffusa diffidenza contro il “progresso”, che in quelle zone si riscontra, può essere letta anche come difesa contro una modernizzazione alienante imposta dall’alto e dall’esterno; e come affermazione in positivo di peculiarità e di identità da salvaguardare e sviluppare.
In genere, in simili regioni d’Europa le forze politiche dominanti sono di orientamento “conservatore”, come si usa chiamare la destra moderata, non fascista. E gli strati sociali in cui tali comportamenti e valori sono radicati, tendono a votare in politica per le “forze di conservazione”. Non c’é troppo da meravigliarsene e non si potrebbe neanche dare torto a chi opta per la conservazione di qualcosa di prezioso, di valido, di radicato, di peculiare, di equilibrato e di umano.
Cosa che la sinistra in genere mostra di non aver capito, tanto da non essere mai riuscita a penetrare profondamente e tanto a meno a esercitare alcuna egemonia nelle aree di cui parliamo. Anzi, la caratterizzazione “anticonservatrice” della sinistra ha favorito i trionfi della destra, consentendole di compiere un colossale e riuscita manifestazione: presentarsi – in genere con l’aiuto dei funzionari della religione – come garante fidata della tradizione, dell’identità peculiare, dei valori tramandati, e gestire intanto senza concorrenza una vasta trasformazione distruttrice che ha sfigurato in maniera selvaggia l’ambiente e i tessuti sociali, rovinando, commercializzando e volgendo in folclore (importante instrumentum regni) tutto ciò che asseriva di voler conservare).
Bisognerebbe finalmente contestare alla destra il diritto di fregiarsi delle insegne della “conservazione”: in realtà “conserva” unicamente – e neanche sempre! – i rapporti di potere, quando si minacci un cambiamento in direzione della giustizia e dell’uguaglianza. (Per rendersi conto di quanto poco “conservatrice” sia in realtà la destra, basta osservare le vicende di forsennate imprese edili, industriali, militari, turistiche e via dicendo nei regni di questa destra pseudo-conservatrice: dalla Baviera al Veneto, dalla Sicilia al Molise).
Che la destra sia realmente “conservatrice” è dunque, in gran parte, una bugia ereditaria che ormai ci si trascina dietro senza verifica critica, e che comunque le ha permesso di farsi forte di una reale esigenza di molte persone e gruppi sociali. Sarebbe ora di “andare a vedere”.
Come bisognerebbe “andare a vedere” se la denigrazione progressista della “conservazione” non si basi anch’essa su una bugia ereditaria: che cioè in fin dei conti le cose (la vita, la società ecc.) possono solo migliorare. Ma é poi vero che la gente é convinta che col passare del tempo e col progresso della scienza, della tecnica, dell’industria ecc., la vita diventi via via più vivibile, più bella, più giusta, più gratificante? Credo che solo gli incalliti ideologici possano rispondere di sì senza esitazione.
Succede così che, magari sul fondamento di alcune bugie ereditarie e di assiomi ideologici, la sinistra si sia lasciata storicamente collocare in posizione di svantaggio in una serie di binomi dialettici: occupando lo spazio dell’utopia, lasciava alla destra quello dell’esperienza; imperniando la propria azione in vista del futuro, il passato rimaneva di pertinenza alla destra; alle speranze un po’visionarie della sinistra, la destra poteva opporre il buon senso, e rivendicare la profondità delle radici contro le fioriture un po’effimere della sinistra.
La difficoltà della sinistra di diventare maggioranza ha anche a che fare con la difficoltà della gente di fidarsi di un futuro non provato alla luce dell’esperienza.
Ora mi pare che per il movimento verde possa aprirsi uno spazio di coinvolgimento e di affermazione popolare laddove i “rossi” non sono riusciti a fare breccia. Se i verdi sapranno rinunciare alla tentazione intellettualistica di presentarsi come rinnovatori del mondo in nome di progetti e principi astratti, e riusciranno invece a collegarsi a quanto di vivo e di positivo si può ricavare dall’esperienza non ancora cancellata dei rapporti tra uomo e natura, e tra uomini, nella cultura popolare , il discorso verde potrebbe smascherare contemporaneamente la falsità del “conservatorismo” della destra e del “progressismo” della sinistra, prospettando una via d’uscita davvero liberata dalla consunta polarizzazione ereditaria tra destra e sinistra.
Un motivo in più per chiedere che i verdi non si presentino come semplice appendice o riedizione della sinistra, ma facciano il possibile per sviluppare piena autonomia e per recuperare un saldo rapporto con elementi della tradizione e della “conservazione”.
Il discorso verde non può parlare solo di futuro e non di passato, di utopia e non di esperienza, di visione e non di buon senso… In questa luce credo che il vero banco di prova dei movimenti verdi si trovi non nelle metropoli e nei ceti post-industriali, ma nelle regioni e negli strati sociali che non hanno ancora subìto per intero la lobotomia industrialista e modernizzatrice. Un banco di prova assai difficile, ma inevitabile, se si vuole arrivare in profondità.
Trento, 1985