Quando eravamo poveri e solidali. E oggi? [La coda dell’occhio]

Zoccola Paolodi Paolo Zoccola

Con una coda dell’occhio ‘storica’ recupero questa volta qualche ricordo di infanzia. Alla fine della scuola la mia famiglia si trasferiva, armi e bagagli ammucchiati su un carretto tirato da un cavallo, a Pietramarazzi dove alloggiavamo presso la cascina degli zii. Tornavamo in Alessandria solo alla riapertura della scuola e per me quei mesi estivi costituivano una sorta di magica fuga dal condizionato vivere cittadino, l’accesso a un mondo in cui potevo godere di una libertà pressoché assoluta di giochi e di avventure, mentre la convivenza con gli zii contadini mi consentiva una partecipata dimestichezza con la quotidianità dei lavori agricoli che mi affascinavano coi loro riti, i loro strumenti, con le loro pratiche ciclicamente legate ai ritmi della natura.

Ebbene, tra le consuetudini di quella cascina che sorgeva i limiti del paese era l’approdo di persone di ogni genere, con una cadenza che ricordo all’incirca quindicinale, senza contare i mendicanti nessuno dei quali andava via senza il suo pezzo di pane. Arrivavano i camminanti, meglio definiti forse dal termine francese revenant; coloro cioè che spendevano la loro vita in un percorso all’incirca circolare della durata di un anno. Arrivava il mandrogno che andava di cascina in cascina a raccogliere le pelli di coniglio, seccate al sole, da conferire alla Borsalino. Arrivavano picccolissimi commercianti di passamanerie e di altri articoli femminili che spingevano a mano il loro piccolo carretto. Arrivava l’arrotino spingendo il suo macchinario appesantito dalla grande mola. Arrivava il magnano, detto anche el sengher, un rom lungochiomato e adorno di un orecchino d’oro o di rame, con la pelle del viso arrostita dal sole, che stagnava le pentole con i suoi rudimentali strumenti. E altri ancora arrivavano, quasi tutti a chiedere ospitalità per la notte, un posto sul fienile.

Ebbene non ho in memoria un rifiuto che sia uno, neppure di fronte a personaggi un po’ loschi che magari mia mamma e mia zia occhieggiavano con una certa inquietudine. E a nessuno veniva negato il pezzo di pane o la fetta di polenta insieme con il bicchiere di vino e a qualche roba di companatico. Eppure si era poverissimi, nei negozi del paese c’era il ‘libretto’ su cui venivano segnati i debiti da saldare quando si vendeva il grano, il granoturco, le ciliegie o il vino, e la carne di bovino si mangiava una volta alla settimana e per merenda spesso ti dovevi accontentare di acqua, pane e zucchero.
E non erano i miei zii ad essere particolarmente caritatevoli, era l’intero mondo contadino italiano che interagiva in questo modo con il povero, il diverso, lo ‘straniero’.
Aggiungerei anzi, perché appunto venivano da un mondo ‘altro’ tutte queste persone mettevano in circolo ognuno le sue narrazioni, le sue idee sul mondo e le informazioni raccolte per strada che diventavano oggetto di veglie serali.

Ma non voglio fare dell’autobiografia, voglio dire che la tolleranza, la carità, l’ascolto erano connaturati nel profondo dell’anima italiana. Così oggi, quando di fronte a qualche fischio o boatos di becere curve calcistiche, agli insulti di nostalgici hitleriani, tutto l’intero establiscement dei giusti e dei buoni per contratto si alza in piedi e dopo essersi drappeggiata la toga sulla spalla, inizia a pronunciare sermoni moraleggianti sul razzismo, sento l’irritazione salirmi in gola. Saremo anche cambiati, saremo diventati tutti più cinici, ci saranno anche episodi intolleranza, ma il sentire profondo, quello che si forma nei millenni, non è ancora cambiato. Gli italiani nel loro complesso non sono razzisti e se qualcuno si ricorda ancora l’epoca di primi senegalesi e marocchini – erano i tempi della mai tanto lodata liretta – non potrà negare che il mille lire al lavavetri non si negava a nessuno, proprio nessuno.

Certo se i miei zii invece di dare ospitalità nel fienile a due persone al mese, si fossero trovati a gestire dieci richieste al giorno, avrebbero avuto di fronte problemi più grossi di loro.

Ecco, appunto. A problemi di questo tipo deve rispondere lo Stato, non i singoli cittadini. Ma si sa, trovare soluzione ai problemi dei migranti e dei rifugiati politici richiede approcci innovativi e pragmatici insieme non facili da trovare, mentre una retoricata standard sui pericoli del razzismo che secondo loro serpeggiano pericolosi tra gli italiani non costa niente e ti fa finire sui giornali.