Extraordinary rendition

racconti_asfalto_bollentedi Angelo Marenzana.

A ferragosto Milano è deserta. Alle sei del mattino, dall’asfalto, sale l’odore umido della notte, e non circola un’anima a pagarla oro. Così, uno che cammina a quell’ora dà subito nell’occhio.  La testimone  ne è certa: era un arabo. Non sembrava tanto giovane e camminava lento, insaccando il dorso ad ogni passo in un’andatura da papera stanca. Forse per via dei piedi piatti. O magari per qualche problema di circolazione. Questa è la testimonianza di una signora che ha assistito ai fatti dalla finestra di un appartamento al terzo piano. Un arabo. Ha precisato alla polizia. Poteva essere marocchino, o tunisino. Magari egiziano. La donna non avrebbe saputo dirlo con maggior precisione. In quella zona ne girano tanti di nord africani, per lei sono tutti uguali. L’uomo aveva la barba. Un barbone lungo e scuro. E indossava una specie di tunica. Anzi, dei pantaloni bianchi, e una camicia. Di quelli larghi che usano loro, e un cappellino rotondo in testa. Ne aveva comperato uno così anche il figlio della donna quando era andato in vacanza in Marocco. La testimone ha ribadito più volte che erano proprio le sei del mattino. Anche qualche minuto prima. E ne è certa perché lei si sveglia sempre a quell’ora e come d’abitudine, sia d’estate che d’inverno, apre subito la finestra della camera da letto per cambiare aria. Aveva notato quell’uomo, era l’unica cosa viva che si muoveva in strada. Fin quando non è arrivato il furgone. Era bianco, ma non bisogna chiederle che modello fosse perché lei di queste cose non ne capisce un’acca. Ha frenato di colpo, ha tagliato la strada all’arabo salendo sul marciapiede. Dal posto di guida sono scese due persone. Tutte e due dalla destra. Al volante ne è rimasto un terzo. La donna è sicura perché sporgeva il gomito dal finestrino aperto. C’è stato come un botta e risposta tra di loro, l’arabo ha scrollato anche la testa come per dire di no, e solo allora si è spalancato il portellone posteriore del furgone e sono scesi altri due. Sono stati rapidi: lo hanno bloccato, afferrato di peso, uno dietro lo stringeva alla gola, e spinto dentro il furgone.  A quel punto la testimone si é spaventata. E così ha chiuso la finestra. Non ha visto più niente ma ha sentito il furgone ripartire facendo fischiare le gomme…

 

due mesi dopo

 

“Allora!… dottor Cardinale, lunedì sera, che novità ci porterà sul caso dell’egiziano ?” mi chiede il tassista. Lo vedo riflesso nello specchietto retrovisore. Ha le guance molli scavate da una ragnatela fitta di piccole rughe. E’ uno spettatore del mio programma che oggi ha la grande opportunità di parlare direttamente al suo conduttore.

“Le sto cercando anch’io”. Tutto si è ingarbugliato quando i testimoni hanno ritrattato dopo qualche giorno la loro versione, negando che il rapito assomigliasse come una goccia d’acqua ad Abu Shamir. Ma nonostante questo, restano un paio di fatti da far quadrare: di certo qualcuno è stato rapito, e dell’imam non ci sono più notizie proprio da quel giorno di agosto. Possono coincidere le due cose?

Mi abbandono con la testa contro lo schienale dell’auto.

“E’ sempre convinto che si tratta di uno dei tanti casi di… com’è che li chiama lei?” ribatte il taxista.

“Extraordinary rendition”. Questa è la tesi che sostengo nel mio programma. In poche parole: operazioni illecite della Cia su territori stranieri, insomma a casa degli altri. Vengono sequestrate persone, interrogate usando sistemi non troppo ortodossi e per manovrare il tutto si usano strutture locali, carceri, aerei… ma, e questo è il punto chiave, sempre in accordo con i servizi segreti locali e responsabili di governo. Un  modo per agire con le mani libere e senza rispettare i diritti altrui.

“Scommetto che nessuno ha mai pagato per questi abusi.”

“Adesso poi con la scusa del terrorismo islamico ci vanno tutti a nozze… Iraq, Sudan, Nigeria, Guantanamo… ormai i confini sono roba superata.”

“Bastardi…” dice lui. E io gli racconto che ci sono centinaia di signori Mustafà che in Europa vengono prelevati, fatti scomparire e interrogati. In realtà non si vuole debellare le cellule terroristiche, perché altrimenti non ci sarebbe stata questa escalation di attentati fino a dieci anni fa assolutamente impensabile, ma serve solo a controllare le attività clandestine, sperimentare esplosivi, preparare militarmente i kamikaze da spedire nelle zone di guerra, sviluppare tensioni, strategie. E per i governi collusi, in cambio, ci sono le  solite cose. Profitti sul mercato del petrolio e delle armi. E se qualcosa non quadra, i responsabili si appellano alla riservatezza degli atti e la cosa muore li.

“Cosa spera di ottenere con la sua trasmissione? Giustizia?”

“Non lo so.”

“Non vorrà fare l’eroe?”

Gli sorrido e lui attraverso lo specchietto sorride a me. Non gli confesso che non ho la più pallida idea di come sia fatto un eroe. E nemmeno che cerco il favore del pubblico per ottenere il rinnovo del contratto televisivo.

Il taxi mi sta portando da Nasser, il cognato di Abu Shamir. Pare abbia informazioni che riguardano anche altri casi di sparizioni di musulmani sui quali la stampa ha taciuto. Quando scendo dalla vettura mi accoglie lo sguardo incuriosito di un gruppo di ragazzini accanto un negozio di prodotti marocchini. Qualcuno ride. Uno si mette a canticchiare senza staccarmi gli occhi di dosso. In questa zona è cambiato il panorama. Ormai convive una mescolanza di immigrati da diverse parti del mondo non sempre in accordo tra di loro, e con gli italiani presi da rigurgiti di bile per la presenza così massiccia di stranieri che ha spodestato il quartiere dalle vecchie logiche cittadine.

Mi avvicino al ragazzo che canticchia. Lui smette subito.

“Cerco l’internet point di Nasser.” Gli dico.

Gli occhi neri come inchiostro si fanno seri. Mi risponde con un accento spigoloso. Mi indica il posto. Gli volto le spalle e lo sento ridere di nuovo rivolgendosi ai suoi amici. Passo a fianco di un suv fermo in seconda fila, e non avrei mai fatto caso a una macchina di questo tipo e ai suoi vetri oscurati, se non fosse stato che, appena la sfioro, si spalancano le portiere, e una mano mi stringe il braccio. Mi trovo davanti una specie di armadio. Questione di un attimo e la morsa sembra diventare d’acciaio.

“Resta tranquillo e non ti succede un cazzo.” Mi mormora da dietro uno che, senza darmi il tempo di reagire, mi palpa velocemente le tasche e si sofferma sul cellulare. Me lo toglie, lo spegne e se lo tiene.

“Chi siete?” dico io, a stento, come se avessi la bocca impastata da una manciata di polvere. Mi strozza una specie di singhiozzo. Per la paura gli uomini tornano a essere bambini, come quando per paura i bambini si ritrovano adulti tutto d’un colpo.

“Sali!” e intanto mi stringe i polsi con un laccio piatto e sottile di plastica, quasi a segarmeli in due. Di quelli che ricordano i prigionieri di Guantanamo. Entro in macchina senza opporre resistenza. Mi lasciano dietro da solo. Probabilmente le portiere sono bloccate dall’esterno e non credo che mi temano al punto da dover mettere in pratica particolari sistemi di sicurezza nei miei confronti. I polsi bruciano come tizzoni e ho addosso una paura feroce.

“Dove mi state portando? Questo almeno posso saperlo?”

Loro restano zitti e a me si raggela lo stomaco. La camicia  si inzuppa di sudore. Sono incazzato. Impaurito e impotente. La miscela peggiore di sentimenti che possa capitare a chiunque. Una miscela che forse si chiama umiliazione. Taccio per il resto del viaggio. Non so se per scelta o se perché mi sembra inutile tentare un qualunque ragionamento con due personaggi del genere. Ci fermiamo in zona Fiera. Quello che mi ha ammanettato mi mette un soprabito in spalla mentre scendo dalla macchina e non mi molla più fin quando non superiamo il cancello del piccolo giardino che divide il marciapiede dall’ingresso della casa. Passando noto una targa di ottone: Centro di documentazione e di cooperazione… e niente di più.

L’atrio è  spoglio. A sinistra un salone. Scrivanie, computer e monitor. Le luci sono artificiali, e le finestre chiuse rigorosamente oscurate. Mentre ci dirigiamo verso un ascensore, vedo circolare una mezza dozzina di persone in maniche di camicia e nessuno sembra fare caso al nostro arrivo. Uno dei due parla in un interfono e dice …stiamo scendendo. Una manciata di secondi, poi sbuchiamo in uno scantinato dalle pareti smaltate di bianco. Luce bianca, da far male agli occhi, e sulla destra quattro porte in metallo con uno spioncino. In fondo un tavolo con un monitor. Dietro due tipi, uno in piedi e un altro con le gambe accavallate e la sedia a dondolare contro il muro.

Per essere uno spazio chiuso, mi colpisce l’assenza totale di odori.

“Lasciatelo libero…” dice uno dall’accento americano. Lo stesso dei film. La lama di un paio di forbici si infila tra plastica e carne e mi costringe a un sussulto. Mi è comparso alle spalle.

“Eccolo il suo amico.” Apre uno spioncino e mi invita a guardare dentro. Riconosco Abu Shamir. Identico alle foto che ho guardato più volte. E’ rannicchiato a feto su una branda fissata a parete che occupa l’intera lunghezza della cella inondata da una luce sparata da un faro posizionato in alto, una luce ancora più bianca e prepotente di quella che illumina lo scantinato. In mezzo al soffitto una telecamera ruota lentamente.

“Mi perdonerà se non mi presento, il mio nome non avrebbe alcun significato. Qui contano le funzioni che ognuno di noi svolge”.

“E che funzioni svolgete?” rispondo massaggiandomi le mani.

“Classica domanda da giornalista.”

“O da ficcanaso.”

L’altro ride.

“Preferisco da giornalista. Mi ricorda la gioventù al college, in Virginia, quando dirigevo il giornale dell’università! Prego, si accomodi.”

Mi volto pensando di trovare una sedia, invece sento una porta spalancarsi e quello seduto dietro il tavolo farmi segno di entrare in una cella. Un morso di panico mi prende allo stomaco. Una fitta alle reni mi ricorda le coliche di cui soffrivo anni fa. Mi siedo sulla branda con il cervello che non è in grado di formulare un pensiero utile.

“Lei è entrato in un campo minato” ricomincia il tipo dall’accento americano “lo sa quanti soldati e quanti civili al mondo hanno perso un piede o una gamba per aver avuto la sfortuna di incontrare una mina sul loro cammino?” tace qualche istante, poi mi punta un dito contro. Il suo volto assume una dimensione spigolosa. “Voglio solo dirle una cosa: dove si è infilato lei non si perde né un piede né una gamba. Si resta dilaniati, e spesso restano dilaniati anche parenti e amici. Non so se mi spiego.”

Il panico non mi permette nemmeno di urlare. Sono solo. Prigioniero. E in preda al panico. Un cane che si morde la coda. Sensazioni che si avvitano tra di loro. Mi pare una situazione senza via d’uscita. Ancora una volta umiliato.

“Noi non vogliamo farle del male, l’abbiamo portata qui solo per dimostrarle che aveva ragione. Lei è una persona intelligente e capace di fare il suo mestiere, e adesso può dimostrarcelo ficcandosi in testa che noi siamo qui per stroncare l’attività di terroristi che vogliono distruggere la nostra civiltà democratica. Non si metta di mezzo. Ha avuto la sua soddisfazione. Adesso lei è certo di aver avuto ragione: Abu Shamir lo abbiamo preso noi”.

“Ma io non so ancora chi siete voi”.

“Adesso sta facendo il ficcanaso, non più il giornalista”.

“E cosa ne fate di quel tipo?” provo a chiedere.

“Sapesse quante informazioni utili ci ha dato. Nomi, finanziamenti, cellule terroristiche in via di formazione, collegamenti con altri paesi islamici ed europei. Insomma un vero tesoro.”

“A guardarlo non mi sembra avere un bell’aspetto”.

“Abbiamo usato dei sistemi un po’ crudi, è vero, ma l’importante è raggiungere l’obiettivo soprattutto quando ne va della sicurezza internazionale…”

“E non potete tollerare che qualcuno si metta di mezzo.” le parole mi escono in modo istintivo “ho capito bene?”

“Ci dimostri che sa fare bene il suo mestiere, e saremo tutti più contenti. Continui a occuparsi di casi di persone sparite, di povera gente, magari malata di mente, senza assistenza, quelli che hanno bisogno di una mano dall’informazione per far sentire la loro voce altrimenti nessuno si accorgerebbe di loro. Ma lasci perdere questi terroristi, si dimentichi di uno come Nasser e delle sue prove artificiali che usa per screditare noi e trasformare uno come lei per gli interessi suoi. Sta cercando di usarla per farla diventare uno strumento della sua propaganda”.

“Perché mi ha fatto venire fin qui?”

“Per scoprire le mie carte, le ho aperto queste celle segrete… sa dove stiamo… cosa vuole di più? Non è un gesto di stima e fiducia nei suoi confronti?”

“Ci sono delle regole… “ sussurro. Le forze sono allo stremo ma non voglio cedere del tutto.

“Non ricominci con le sue litanie sul garantismo, per favore! Il nostro obiettivo è troppo grande per doverci preoccupare della vita di un mostro che ha sposato il terrorismo in una terra che l’ha accolto a braccia aperte e che dà un’istruzione ai suoi figli e un letto d’ospedale quando ne hanno bisogno.”

Esco dalla casa in zona Fiera dopo un paio d’ore, da solo, come un qualunque impiegato.  Ho nausea e mi fanno male le ossa. Forse sono anche febbricitante. Esco con la certezza di avere a che fare con dei mostri che combattono altri mostri. Non posso stare dalla parte di nessuno di loro, e rischio di uscirne solo sconfitto. Stavolta ci sono di mezzo i servizi segreti americani, e ho appena finito di toccare con mano la loro presenza a casa nostra. Mi rendo conto che la minaccia dei cheeseburgers di McDonald non sono niente in confronto alla pericolosità dei loro agenti in abito nero e camicia bianca. Ma chi poteva mai pensare che io, cronista del Tg Regione e conduttore di una trasmissione in seconda serata, mi sarei ritrovato un giorno ad avere una parte in un film di intrighi internazionali. Come un attore di Hollywood. E sul collo il fiato malsano dei controllori del globo intero.

Del potere assoluto

…passa il tempo e rimane il ricordo su questo suo caldo corpo… Ascolto i Casino Royale in compagnia di Antonino Zola detto Pancho. Non avevo voglia di restare solo e gli ho chiesto ospitalità per la notte. Lui mi aiuta spesso nelle mie inchieste. E’ un programmatore informatico e pure mezzo hacker anche se non è mai andato oltre una serie di incursioni di disturbo nei software di aziende collegate a importanti multinazionali.  Frequenta il centro sociale Bue Rosso e di tanto in tanto si spinge in aggressioni in rete per un’esigenza profonda, come dice lui, di controinformazione e disobbedienza civile.

Pancho è convinto che i servizi segreti, italiani o americani che siano, mi vogliono coinvolgere nei loro giochi, così se qualcosa dovesse andare storto possono dimostrare che anche la stampa era al corrente di tutto, e probabilmente non sono l’unico giornalista che hanno tirato dentro.

Sullo schermo del suo computer passano alcuni visi.

“Fissateli bene in mente. Potresti ritrovarteli per i piedi”.

Non so come Pancho sia riuscito a introdursi in questi siti governativi, ma preferisco non chiedere. Mi si gela un attimo il sangue quando vedo la faccia dell’americano che ho conosciuto nella casa in zona Fiera.

Nome e cognome: Jeffrey Stills, capocentro di Milano.

Vado in bagno. Mi spoglio, prendo il flacone di bagnoschiuma, lo verso nella vasca piena d’acqua fino a diffondere nell’aria un profumo delicato di pino. Poi mi infilo dentro. L’impatto provoca un formicolio su tutta la pelle. Mi abituo al cambio di temperatura e incomincio a rilassarmi. Socchiudo gli occhi. Senza la più pallida idea di come uscire da questa situazione. Mi massaggio le spalle indolenzite. Chiudo gli occhi e infilo la testa sotto il pelo dell’acqua. Forse pregherei volentieri, se solo mi ricordassi una qualunque preghiera.

Poi arriva il momento di dormire. La notte vola via, e quando mi sveglio è mattino presto. Il cerchio di oscurità che mi ottenebrava il cervello fino a ieri sera sembra essersi dilatato, e la tenebra si è dissolta. Ho deciso che voglio tornare in zona Fiera, guardare chi entra e chi esce da quella casa, scattare qualche foto. Raccogliere materiale, come compete a un giornalista. Voglio fare un primo passo. Ma per tornarci, ci posso andare solo con la vespa di Pancho, che i miei rapitori non hanno mai visto perché se ne sta chiusa in garage ormai dalla fine dell’estate. E un casco serve sempre a nascondersi senza dare nell’occhio.

Esco in strada facendomi largo tra i camion per la raccolta rifiuti. Sono diretto al bar Julio, un cubo di vetro e cemento delimitato da fioriere che segnano il confine con il mondo esterno. Dentro, l’odore del latte tiepido si mescola con quello del disinfettante per il banco, che lo stesso Julio strofina, tra piatti di brioches appena sfornate, scie di zucchero e le prime chiazze di caffè.

In piedi, di fronte al cameriere, un solo cliente, quello mattutino, puntuale e preciso nella sua ritualità del risveglio, Giovanni Ragusa, giudice, mentre si pulisce la bocca con un tovagliolino. Ci conosciamo da anni ma non ci siamo mai rivolti un saluto. Nell’ambiente il giudice si è fatto la nomea di onesto, una persona schiva che fa il suo lavoro senza guardare in faccia a nessuno. Fa scorrere una moneta da due euro sul bancone e senza aspettare resto e scontrino si piega di lato a stringere il manico della borsa di cuoio ormai segnata dal tempo. Per un istante mi squadra. Quasi provo imbarazzo. Sembra abbozzarmi un mezzo sorriso. Poi lo vedo uscire. Urta un bambino che nel frattempo sta entrando. E’ seminascosto da mazzi di gigli, rose e iris contenuti in un secchio di metallo stretto al petto a braccia unite. Lo posa a terra e mi fissa pure lui.

“Se vuoi fare colazione ordina quello che vuoi”. Gli dico senza mascherare un senso di ostilità.

“Stanotte sono morti Nasser, la moglie di Abu Shamir, e altri due”.

Mi giro di scatto. “Chi sei?” gli chiedo.

“Non mi riconosci? Ieri cercavi l’internet point…”.

Lo metto a fuoco. E’ il ragazzino che canticchiava.

Gli faccio segno di si con la testa.

“Cos’è successo?” e mi stacco dal banco.

“Stanotte… un’esplosione!” Incassa le spalle, e sembra trattenere un singhiozzo.

“Eravate amici, tu e Nasser?“ cerco di schivare la sua ansia.

“Mi chiedeva dei favori e qualche volta mi pagava”.

“Che favori?”

“Lo aiutavo in negozio, oppure andavo in posta, facevo qualche consegna”.

“Cosa consegnavi?”

“E che ne so!”.

“Perché sei venuto da me?”

“Perché eri suo amico”.

“Amici? E chi te lo ha detto?”

“L’ho sentito parlare di te qualche volta, e se tu fai il giornalista vuol dire che sei una persona importante.”

“E gli altri due morti chi sono?”

“Amici suoi. Certe volte lo andavano a trovare, e lui li ospitava per la notte”.

Rimango in silenzio poi infilo le mani in tasca e tiro fuori il cellulare. Chiamo in redazione. Le informazioni già note non sono tanto diverse da quelle che mi ha appena dato il ragazzino. Lui resta ancora a fissarmi. Forse è la sua dose di rabbia e paura che me lo sta facendo sembrare adulto.

“Come ti chiami?”

“Kamal”.

Quando arrivo sul posto la confusione è alle stelle. Sirene, fasci di luce dei lampeggianti, polvere, rottami, vigili del fuoco, ambulanze, camion, scavatori. Non ho idea da dove incominciare per provare a capirci qualcosa. Vedo altri colleghi. Scambio quattro chiacchiere. Sono ragazzi giovani, praticanti che lavorano quasi gratis. Le redazioni hanno mandato loro sul posto perché l’esplosione si presenta come un normale fatto di cronaca. L’ipotesi è la fuga di gas. Immigrati, casa vecchia, strutture inadeguate. Tutto fila. Il teorema quadra.

Vedo un corpo sporco di polvere e la parte alta nascosta da un telo bianco. Una donna. Abiti stracciati. Scalza, gambe nude sporche di terra. Una donna che ha trascorso la vita nel rispetto della riservatezza del proprio corpo, passa davanti a tutti in una posizione sguaiata. Penso che si tratti della moglie di Abu Shamir. Il primo pensiero che mi lacera il cervello è che la morte violenta è qualcosa che compete solo agli uomini. Le donne danno la vita, rappresentano la vita. Una donna morta di morte violenta è un fatto inaccettabile.

D’istinto torno indietro, salto sulla vespa, appoggio i piedi a terra e mi allaccio il cinturino del casco.  Lo vedo. Qualcosa di lui stona in mezzo al tramestio della folla di curiosi e addetti ai lavori. Aria curata, mani in tasca e soprabito blu sbottonato. Se è un’ombra che mi hanno messo alle calcagna penso di poterlo fregare schizzando via con la vespa. Metto in moto e do gas, e lo vedo di sfuggita mentre si porta il telefono all’orecchio.

Prendo la direzione zona Fiera. Il traffico è ancora scorrevole. Di tanto in tanto guardo negli specchietti retrovisori ma non noto manovre strane alle mie spalle. Le mani stringono l’acceleratore, così contratte da apparire livide. La rabbia è alle stelle, la rabbia che si nutre di paura, e che brucia negli occhi, nei muscoli sfibrati dalla tensione.

Arrivo sul posto. La casa c’è sempre. Ma non vedo più la targhetta accanto alla porta d’ingresso. Fuori, buttati a terra, cartoni vuoti e un paio di sacchi neri pieni di rifiuti. Regna un’inquietante aria di desolazione, di abbandono. Quasi non fosse mai esistito. Mi resta addosso l’angoscia del visionario. Un filo di lucidità mi  dice che probabilmente i topi hanno abbandonato la nave portandosi via il carico. Mi sembra di avere toccato il fondo, di essere sprofondato sempre più giù e di annaspare tra tentacoli e alghe che mi tengono invischiato sul fondo impedendomi di riemergere, per riuscire a respirare a pieni polmoni, vedere la luce, sentire la forza della vita. Tutto mi sembra attutito dentro e attorno a me, e il respiro pesante mi stordisce con il suo ritmo compresso sotto il casco.

Poi arriva il primo colpo e la ruota anteriore si affloscia sotto le mie mani e si inclina. Mi volto di scatto e vedo il suv dai vetri oscurati poco distante. Qualcuno mi spara contro. Brevi fiammate, rumori secchi, due, tre, e odore di bruciato, come di una macchina diesel mezza ingolfata. Le gambe si piegano, cado e picchio il mento sul manubrio. Mi raggomitolo tra la vespa e il marciapiede con la lamiera che mi ferisce il polpaccio. Tutto è troppo rapido. Cerco di rialzarmi per scappare via da quella specie di trappola e strisciare dietro un cassonetto dell’immondizia. Arrivano altri colpi, sono più vicini. Istintivamente mi copro la faccia con le mani. All’improvviso, mentre mi sposto, le gambe incominciano a bruciarmi. Sempre di più, come se qualcuno ci stesse piantando dentro un ferro arroventato. Il bruciore incomincia a salire dalla coscia e arriva alla schiena. Mi esplode un mal di testa insopportabile. Sudo. Mi sento la camicia tutta inzuppata e un freddo fuori stagione mi stringe come una tenaglia. Incomincio a tremare, e parlo, parlo, mi scappano delle parole che si smorzano per terra, e la saliva mi cola, e si mischia con il sudore della faccia e il sangue che mi esce dalla bocca.

Poi, da terra, vedo le falde di un soprabito blu sbottonato venire verso di me. Sento i passi dello sconosciuto sempre più forti, e, in lontananza, l’eco di una sirena. La mano destra stringe una pistola…

…apro gli occhi, e la luce bianca mi abbaglia, quasi mi ferisce. Nelle orecchie ho il rantolo del mio stesso respiro, e sento i polmoni come due sacche asciutte. Capisco di essere steso in un letto. Provo a muovermi. La nausea mi aggredisce. La prima cosa che faccio è ripetere il mio nome in testa, Lorenzo, Lorenzo Cardinale… e la data di nascita, 28 dicembre 1969, come quando sono svenuto da ragazzo giocando a pallone per via di un fallo che l’arbitro non aveva nemmeno fischiato. Percepisco una presenza. E’ un’infermiera che mi viene incontro. I tratti del suo viso sono sdoppiati. Armeggia con  la flebo. Poi si allontana. Si ferma accanto alla porta con un paio di uomini. Mi indica. I due si avvicinano. Il cuore aumenta le palpitazioni appena vedo sventolare un soprabito blu sbottonato. L’altro si appoggia alla sponda del letto. Quattro occhi mi puntano con intensità.

“Dobbiamo solo farle una domanda… poi la lasceremo in pace”. Riconosco il giudice Ragusa. Per la prima volta mi rivolge la parola. In mano stringe la sua borsa usurata dal tempo. “Ma prima voglio presentarle il maresciallo Visconti. Il suo intervento è stato provvidenziale, a quanto pare”.

Faccio fatica a mettere a fuoco i pensieri.

Passa qualche istante. Forse anche loro cercano di capire quanto io sia in grado di intendere le loro chiacchiere.

“Qual è la domanda?” chiedo con la lingua che sembra incollata al palato.

“Alcune sue affermazioni nel corso delle trasmissioni mi hanno messo in allarme. E così ho aperto un fascicolo d’inchiesta. Allo stesso tempo ho pensato bene di metterla sotto controllo, lei e il suo telefono, per sicurezza. Credo di aver fatto la mossa giusta visto che ieri mattina, qualcuno ha cercato di ucciderla. Questa cosa non mi è piaciuta per niente. Forse siamo oltre le più rosee previsioni e credo che lei abbia delle cose interessanti da dirmi su un caso sempre più ingarbugliato. Ecco la domanda: vuole collaborare?”