47 anni a faccia tosta: Bernardo e gli Squali [Il Superstite 133]

arona-2di Danilo Arona

Per fortuna non mi ritrovo da solo a condividere certi, importanti ricordi. Un amico di sempre, Bernardo Beisso (foto sotto), dopo avere letto il post della settimana scorsa, mi ha scritto, onorandomi del suo punto di vista. E ci piace al punto che per questa settimana gli cediamo lo spazio. Così mi riposo, accidenti…

Ciao Conte, ho letto il tuo post apprezzandolo, non solo per la tua capacità letteraria ma per l’emozione che certe storie riescono a suscitare. Storie che abbiamo condiviso in epoche passate e che oggi ci appaiono come favole. Ma noi in quelle favole ci eravamo permessi di esserci. La mia è la testimonianza di un’ avventura che ci accomuna, magari un pochino più semplice, meno sofisticata; forse è per questo che ancor oggi frequento musiche agricole, ho detto agricole non lisce. Te l’affido, sapendo che nelle tue mani non è sprecata. Un abbraccio, Bernardo.
Allora…

… I tre si guardarono, parlarono, e Roberto, indicandomi, sentenziò: «Non ci sono cazzi, se vuoi suonare con noi devi suonare il basso!».
Il basso? Per poter far parte di quel complesso musicale avrei suonato anche il trombone a mantleina, nome in dialetto per indicare il trombone basso americano
Era l’estate del 1965 e incominciavamo a sentire il vento impetuoso che stava cambiando la musica e la società. I tre erano: Roberto Regalzi, suo fratello Piero e Stellio Cellerino. Roberto il più vecchio, 21 anni, il più ordinato anche nella pettinatura: affascinante era la sua inossidabile riga destra sui capelli corvini in un’epoca che vedeva lo sconvolgimento delle pettinature. Roberto decise che lui avrebbe suonato la batteria nel complesso musicale che animava ormai da tempo i nostri sogni. Piero diciottenne tombeur de femmes, era riuscito ad accaparrarsi le attenzioni, non solo quelle, dell’inossidabile sanremese che ogni anno trascorreva le vacanze a Valle (N.R., Valle S. Bartolomeo, AL) e che si chiamava Maria Grazia ma per tutti era “la bionda”. Questo lo metteva ai primi posti nella classifica di quelli che “caciavano”; un poco più ribelle del fratello, portava un caschetto di capelli neri che era la disperazione del  padre Ubaldo. Piero aveva imparato qualche accordo alla chitarra (DO, LA, FA, SOL), insegnatogli  dal compagno di scuola Stellio e così decise che si sarebbe posizionato alla chitarra “di accompagnamento”, gergo che indicava il musicista che con gli accordi accompagnava le canzoni o la melodia di qualche altro strumento.
Stellio, la chitarra la suonava già; con una madre insegnante di pianoforte aveva sin da piccolo respirato musica. Autodidatta, per me era un vero genio. Amante del jazz e grande “svisatore”, avrebbe dato al repertorio del gruppo qualcosa di inimitabile a quei tempi; indimenticabili i suoi Blue Moon,  Caravan e Apache. E indubbiamente fu lui l’anima musicale della band.
Il mezzo di trasporto era la bellissima 1500 FIAT color antracite di Roberto che veniva accudita dallo stesso quanto la pettinatura: un vero lusso, insomma.
C’era tutto! Ma più di tutto la voglia, la passione. Passavano in second’ordine la scuola , gli orari, i limiti dei genitori e forse anche le “morose”. Più di una volta facevamo “magno” per ritrovarci a provare.

Quando, ritornando a casa, annunciai che avrei suonato il basso nel vagheggiato complesso, iBernardo miei genitori, da sempre abituati ad accontentare ogni mia richiesta, dissero di sì all’acquisto dello strumento e all’esborso conseguente per il pagamento di un insegnante. Facile come tagliare il burro, in una famiglia dove mio fratello suonava il pianoforte come professionista in giro per il mondo, dove mio padre leggeva la musica e cantava come baritono dall’età di vent’anni e dove mia madre conosceva e intonava tutte le canzoni della sua gioventù. Così, inaspettatamente il giorno dopo, io e papà ci recammo da un tal Tito Vercelli che in un garage vicino alla piscina di Alessandria vendeva strumenti musicali. Ci convinse che la scuola meglio era farla con un contrabbasso, così ci rifilò un contrabbasso est Germania, strumento anche bello ma che non si confaceva alla musica beat del nostro repertorio. Dopo due giorni tornammo e finalmente potei avere tra le mani un vero basso elettrico “Eco”. Comunque quel Tito aveva l’aria di saperla lunga e avrebbe fatto strada, sentenziò mio papà.
Il primo insegnante fu il maestro, credo, di tutti i musicisti o pseudo-tali alessandrini di quei tempi: insegnava dal pianoforte allo scacciapensieri, dalla fisarmonica (suo strumento) al basso, appunto. Il maestro Cacciabue, un simpatico personaggio magro e dinoccolato nel suo vestito grigio gessato; quando non sopportavo più il tedio e la melina del solfeggio, bastava gli offrissi qualcosa al bar per avere subito diritto a un intervallo. Uscivamo in via Milano, attraversavamo la strada e al bar di fronte io sorseggiavo un chinotto, lui un bianchino. Poi tornavamo su e tutto era più accettabile.

Verso novembre il nostro repertorio vantava una decina di pezzi: Rendimi tutto quel che ti ho dato dell’Equipe 84, Un ragazzo di strada dei Corvi, Apache degli Shadows, Blue Moon nell’interpretazione Celleriniana e poi Blues Stellio 1, Blues Stellio 2 e Blues Stellio 3. Ma la grande occasione era alle porte. Avevo saputo in casa che verso dicembre, mio fratello Jose con il suo gruppo I notturni aveva un contratto per una serata, alla SOMS di Valle. Si era da poco inaugurata la sala da ballo coperta e tutti i sabato sera si ballava. Molto rinomata e affollata, esibiva sulla parete dietro il palco un grande affresco che rappresentava muse con strumenti in un paesaggio floreal-rinascimentale del pittore Patrone, una vera sciccheria; una grande vetrata permetteva di uscire, nella buona stagione, al ballo all’aperto: lì avrebbe suonato mio fratello e lì noi avremmo perso la verginità. Da principio mio fratello non ne volle sapere delle mie suppliche fino a quando, forse convinto dalla mamma, una settimana prima del concerto mi annunciò che la cosa si poteva fare.
Subito entrammo in fibrillazione non andammo più a scuola e quando Stellio decise di rientrarci, dovette essere accompagnato dai genitori.

C’erano da mettere a posto un sacco di cose, le divise intanto; optammo per quattro maglioni rossi con due righe nere al braccio  sinistro, belli e ottimi per sciare, non per suonare in un posto riscaldato, ma c’erano cose più importanti cui pensare. Per esempio, l’amplificatore di Stellio avrebbe retto? Il “cubo”, così lo chiamavamo, disponeva di pochi watt che valevano per una stanza, ma sarebbero stati sufficienti per un salone pieno di gente che parla e schiamazza? Era un rischio che ancor più agitava gli ultimi giorni, ma quello avevamo e bisognava sperare.
Era appunto il mese di dicembre del 1965; avevo quindici anni e qualche mese, stavo bene ed ero già innamorato. A scuola invece era un macello. Quella sera avrei suonato di fronte a un pubblico e che pubblico! Quello del mio paese! I miei genitori, mio fratello che si assumeva la responsabilità dell’evento, mio zio Ottavio che pubblicizzava da giorni la serata danzante e suoi nipoti, mettendoli ai primi posti in capacità  e bellezza, poi c’erano gli amici e tutte le amiche con cui avevo giocato innocentemente fino a qualche mese prima. Ecco, diventavo di colpo grande, un ometto con tanto di cappello alla Jonh Lennon e divisa rossa, alla pari con quelli più vecchi. Di colpo per il basso dimenticavo l’inseparabile fionda, sostituivo i pantaloni corti con i jeans stretti e neri, i sandali con gli stivaletti, l’amico del cuore con la ragazza. Un salto un po’ forzato da un mondo all’altro senza rete di protezione, tutto senza quasi accorgermi di nulla, tutto assolutamente indolore a parte gli intimi pruriti e le magliette che diventavano strette.

La sera del gran debutto rimanemmo chiusi nella stanza sopra al bar. sudati e inquieti nei nostri bei maglioni calcati mentre, sotto, la serata procedeva bene. Si era vista molta gente già  dalle prime note dei Notturni e il nome di mio fratello era servito da magnete, data la sua  nota bravura. Affollato era anche il bar e potevamo captare il viavai della gente che lo gremiva. Mentre, sempre più madidi, provavamo mentalmente ancora gli accordi dei pezzi da eseguire, ci vennero a chiamare: mio fratello aveva appena ironicamente annunciato al microfono, “reduci dai successi di Liverpool ecco a voi GLI SQUALI!!!”.
Così iniziò la bella avventura. Quella storia che tutt’oggi, mentre sto scrivendo, dura per me, da quarantasette anni. Quella sera capii che stavo bene, intimamente bene con me stesso. Su un palco, scoprivo la mia voglia di esibizionismo, mi si rivelava il mio egocentrismo, ma anche l’energia che producevo e come riuscivo a trasmetterla, improvvisando quasi tutto, lasciando mano libera all’istinto.
Da allora mi resi conto quale maschera avrei indossato. Più avanti negli anni avrei scoperto quante maschere si possono indossare nel rapporto con gli altri. E, se tutto questo può sembrare non idoneo a una vita equilibrata, devo dire che a me, è andata bene lo stesso.

Bernardo Beisso