1978, Fuga a Parigi (4) [Il Superstite 131]

arona-2di Danilo Arona

Il primo atto della “Notte da Leoni” fu la consapevole scelta di rinunciare per quella sera al Festival del Grand Rex. Delle due l’una, ma il mio spirito cinefilo ne ebbe a soffrire. Alle otto, minuto più minuto meno, camminavamo già per il quartiere a luci rosse che si stava giustamente animando. Il primo shock, non culturale, lo ricevemmo quando imboccammo Rue Saint Denis. Una lunga strada che rigurgitava alla lettera di splendide e giovani signorine dedite al meretricio che incorniciavano i due contrapposti marciapiedi come forche caudine attraverso le quali si transitava ed eventualmente, se lo si desiderava, si attaccava bottone con le ragazze. Non accadde invece nulla, perché, per capirci, eravamo sbigottiti dalla qualità dell’offerta.

Abituati a quel che si vedeva all’epoca transitando per la circonvallazione di Alessandria, era come passare da un film con Tina Pica a uno con la Bellucci, ai tempi ancora in fasce. La seconda botta ci colpì con il cinema porno. Nel ’78, non dimentichiamolo, il porno era ancora un tabù. Locali specializzati e/o dedicati in Alessandria non esistevano. Il Fen poi venne calamitato dalle locandine di una versione hard di Biancaneve e i 170 nani che a me, purista dei generi, non scompifferava affatto ma che accettai per quieto vivere. Per quel che ricordo della pellicola, di nano ce ne stava un solo, ma valeva per tutti gli altri mancanti. Però il film era lo stesso desolante e per nulla erotico. Ma è noto che i valori di riferimento divergono: per dirla con assoluta genericità, l’erotico è il regno dell’immaginazione mentre il porno è quello dell’ostentazione alla luce del sole. Io ero già allora uno storico cultore dell’erotismo e le imprese del nano mi facevano un po’ pena.

Usciti di lì, riprendemmo la blasfema via crucis e c’infilammo, sospinti da un buttadentroparis_pigalle italiano, in un locale di striptease: in pratica una stanza grande come un salotto, qualche sedia e un minipalco sul quale si esibivano le giovani artiste. «Sono universitarie», ci confidò il portiere, «di sera arrotondano.» In effetti parevano proprio delle ragazze normali senza molta esperienza, ma il tipo ci piazzò in prima fila, in buona sostanza a 10 centimetri dalle tipe. Altro che il mistero dell’erotismo, fu una sorta di visita ginecologica visuale.

All’uscita cominciammo a sentire i morsi della fame. Il Fen, in pieno delirio etnico, optò per un bar di arabi dove ci propinarono un panino farcito con peperoncino di cajenna. Piangemmo per dieci minuti e bevemmo un litro di birra a testa. Usciti dal kebab, ci sentivamo il fuoco dentro. Lo si poteva scambiare nell’identico istante per il fuoco dell’arte o della passione, ma era semplice riscaldamento da spezia. Però per noi si trattava senza ombra di dubbio di passione. E allora non ci furono più dubbi.

Qui lo scrittore, il compilatore di diari del tempo passato, il biografo (fate voi) deve sospendere la narrazione in tempo reale. I ricordi si fanno vaghi e indistinti. Ne io né il Fen conserviamo immagini vivide. Forse nell’ultimo locale notturno dove sostammo ci misero qualcosa nei bicchieri. Lui sostiene che stavo per fidanzarmi con una bionda di Amburgo e io lo ritrovai davanti al banco bar che mangiava foglie di vite in quantità, urlando che gli era sparito un calzino. Mi trascinò via, lo dice ancora oggi, mentre imploravo la bionda di darmi indirizzo e numero di telefono. Il buttadentro, anche in questo caso italiano – si chiamava Ernesto, si trasformò in buttafuori e ci accompagnò alla porta, pregandoci di non disturbare più. Noi, ancora oggi, ignoriamo il busillis, ma sono dettagli. La ciucca, se tale era, assomigliava a un incubo psichedelico. Impossibile che si trattasse solo di vino.

In ogni caso, sbandando qua e là, macinammo un po’ di strada e a un certo punto capitammo di fronte al Museo delle Cere, che ancora non aveva chiuso. Proposi al Fen di smaltire la ciucca là dentro. Peraltro per me era un luogo mitico, come sempre legato al cinema. Entrammo, facemmo un giro (ricordo un nebbioso criminal tour in mezzo a tanti famosi delinquenti…) e quindi decidemmo di sederci per qualche minuto. Clamoroso errore perché rischiammo di addormentarci. Per fortuna una voce roboante da un altoparlante ci svegliò con la frase: «Affrettattevi all’uscita, il museo sta per chiudere». Guadagnammo l’uscita traballando e il Fen a un certo punto intavolò una discussione con un inserviente, scoprendo soltanto dopo due minuti che si trattava di una figura di cera.

Dalla sera dopo ci comportammo come da copione annunciato alle masse italiche, ovvero Festival al Grand Rex in sala stampa con tessera scaduta. E il mal di testa che ancora ci accompagnava. Molti film, qualcuno da dimenticare e altri che avrei rivisto in edizione doppiata qualche mese dopo in Italia. Ma questa è di sicuro un’altra storia.
Quel che è ancora certo oggi: al ritorno in Alessandria le nostre storie con l’altra metà del cielo andarono subito in crisi e si esaurirono. A conferma di quel che si sente spesso dire a proposito di certi viaggi “iniziatici”: occorre quasi sempre partire per ritrovarsi.