Il dramma del lavoro (che non c’è)

Ad essere drammatici non sono i numeri (2,8 milioni di persone alla ricerca di un lavoro, disoccupazione ufficiale prossima all’11%, ma tra i giovani addirittura al 35%), ma la realtà sociale che ci sta dietro.

Perché, guardate, quei numeri vanno come minimo raddoppiati, se ci mettiamo dentro le persone scoraggiate che i centri per l’impiego neanche sanno dove stanno, e i tanti, tantissimi italiani che lavorano per poche centinaia di euro al mese, in condizioni di semi abusivismo, o con partire iva che costano più di quanto rendono. E’ uno scenario apocalittico, di fronte al quale non so voi, ma io trovo irritante che personaggi super privilegiati alla Monti o Fornero possano anche solo metter becco, per di più per illudere sulle luci in fondo al tunnel (sicuramente un treno: lo abbiamo già scritto), o per dare degli smorbi a vanvera a ragazzi senza futuro. Poi c’è la vicenda Fiat-Fiom, che mostra come, in ambito industriale oltretutto “assistito” (non mi si venga a dire che Fiat è impresa di mercato, almeno in Italia) vige la logica del ricatto e della ritorsione antisindacale. E spero di aver equivocato certe dichiarazioni di sindacalisti filo padronali, ma non credo proprio.

Questo del lavoro che non c’è, o c’è a condizioni di nuova barbàrie, è il vero dramma italiano: altro che “pericolosa” avanzata dei 5 Stelle, altro che porcellum o riforma delle Province. Sono stato a Milano in questi giorni, e altre persone le ho sentite telefonicamente: la Lombardia è sotto choc, a fine anno si aspettano un nuovo picco di chiusure di piccole e medie aziende. Il che significa che resteranno senza stipendo un sacco di famiglie di lavoratori a basso reddito, spesso senza tutele o con tutele minime.

Da noi, poi, la realtà territoriale la conosciamo, anche se tendiamo a ignorarla, parlando solo ed esclusivamente del parastato. Che ha le sue emergenze (di stipendi, ma anche di riforme) ma non può, non deve monopolizzare il dibattito, le analisi, i progetti di rilancio. Gli impiegati statali vengono pagati con le tasse che tutti gli altri pagano, non dimentichiamocelo: quindi se crollano industria, commercio, artigianato, libera professione, facciamo ciao ciao con la manina anche al posto fisso degli statali, è matematica.

Come uscirne allora? Spiace tornare sui politici (anche se sparlare di loro genera consenso), ma naturalmente se non ci scegliamo rappresentanti all’altezza dei gravosi compiti, questi oltre a non aiutare, frenano e ostacolano. A me pare che il finto governo tecnico che ci ritroviamo da un annetto abbia fatto assai pochino per migliorare la situazione. E’ riuscito a deprimere i consumi, far lievitare la disoccupazione, e convincere ancor più chi il denaro ce l’ha a tenerlo al sicuro (ammnesso che sia possibile) anziché investirlo per “fare” piccola impresa diffusa. “Eppure vedrai”, mi dice il solito amico saggio, “man mano che gli italiani torneranno poveri davvero dovranno per forza di cose rimboccarsi le maniche, e provare a lavorare di nuovo, anziché aggirarsi come zombie per manifestazioni”. Gli ho fatto notare che le manifestazioni ormai le fanno i garantiti (sempre meno) per cercare di non perdere le garanzie, mentre chi il lavoro non ce l’ha, o ce l’ha e precario, in piazza non ci va di certo. In ogni caso tuti i torti non li ha neppure lui: il guaio è che, ormai, se fai l’evasore totale di beccano pure, e se provi ad aprire qualsiasi attività in regola prima la burocrazia pubblica ci mette 6 mesi per darti il via libera anche solo per un chiosco, o un negozio da ciabattino. Poi i mille balzelli diretti e indiretti fanno il resto. Vita dura, lo so. Ma da qualche parte dovremo pur trovare la via d’uscita, non credete?

E. G.